Il mondo globale sorto sulle ceneri del bipolarismo est-ovest si è caricato di una missione universale civilizzatrice e agli occhi di gran parte dei cittadini del pianeta è raffigurato come uno spazio di opportunità. In questo senso, ogni declinazione del patriottismo, sia pure misurata e ragionevole, appare deleteria.

L’interdipendenza tra gli Stati, oramai legati ad una serie di irrinunciabili relazioni, trattati e alleanze militari, sembra infatti irreversibile. Peraltro, nel nostro caso – come appurato sin da primo giorno di guerra in Ucraina – il fatto di essere privi di autonomia energetica ci racconta anche della inevitabilità delle alleanze commerciali e di quanto esse siano sempre più destinate a produrre conseguenze dirette nelle scelte politiche interne e nelle azioni dei singoli governi.

Abbiamo dunque necessità vitale di aprirci al mondo pur tuttavia, stiamo scoprendo l’altra faccia di un Leviatano che, mai privo di tratti utopici, fagocita le identità particolari incatenandole al giogo della economia finanziaria, allo strapotere delle grandi multinazionali e alle derive tecnocratiche di una Europa iper-burocratica e a tratti autoritaria. La pressione dominante spinge infatti verso la globalizzazione la quale, nonostante salvaguardi formalmente gli stilemi della democrazia liberale (elezioni, parlamenti democratici e istituzioni statali), tende sempre più a ridurre e addomesticare gli spazi di decisione particolari.

È proprio dinnanzi a ciò che possono evidenziarsi i limiti di una proposta sovranista che per ribattere a tale deriva corre il rischio di arroccarsi sempre più in un atteggiamento difensivo e di chiusura e perciò scadere in una dimensione anacronistica. Il pericolo che la trimurti sovranista “Dio, patria, famiglia” venga sopravanzata con particolare fervore da un indistinto populismo, ancor più impetuoso di quello conosciuto in passato, diventa così reale.

Si può infatti anche sostenere una critica radicale alla globalizzazione; o meglio, si può ritenere che la attuale internazionalizzazione dei mercati e delle merci sia spesso penalizzante e produca povertà e disuguaglianze più di quanto ci si potesse aspettare qualche decennio addietro. E perciò, legittimamente sostenere la difesa delle frontiere, del commercio interno, delle proprie aziende e dei lavoratori, insieme all’urgenza di tutelare le identità culturali e religiose e di valorizzare le specificità. Ma tali concetti e valori assumono credibilità politica se riescono non solo a farsi spazio come artificio retorico nella discussione pubblica ma a scrostarsi di ogni radicalismo residuo per porsi come argine realistico all’aggressione globale.

Alessandro Campi mette in fila le tappe storiche di questo moderno patriottismo in un libro accurato (Il fantasma della nazione. Per una critica del sovranismo, Marsilio, p.208). Parte dalla costruzione mitico identitaria risorgimentale, passa poi alle differenze tra la piega più aggressiva che aveva preso il nazionalismo alla vigilia del Prima guerra mondiale con il fronte guidato da Rocco e Corradini rispetto a quello di Prezzolini e Papini, si sofferma sul socialismo tricolore di Craxi, sul patriottismo repubblicano di Ciampi, sulla patria padana, e arriva fino ai giorni nostri con la destra di governo.

Mette in luce molte zone d’ombra di un fronte nel quale sembra prevalere l’anelito protezionista, che inneggia al ritorno a un’unità perduta, bandisce lo straniero, punta a chiudere le frontiere, «si nutre di stereotipi, derive ideologiche, risentimenti e dunque privo di respiro progettuale e politico».

C’è del vero nelle sue affermazioni tuttavia, a questo punto della storia, servirebbe un sovrappiù di immaginazione da tutte le parti: sia dal fronte “internazionalista” che da quello “nazionale”. L’idea dello Stato regolatore e interventista che programma e determina le condizioni per lo sviluppo mostra oramai il passo. Ma, d’altro canto, bisogna ammettere anche che le delocalizzazioni, le alterazioni peggiorative del diritto del lavoro, il dumping sociale, il “mito del pareggio del bilancio” diventato norma costituzionale e mille altre questioni hanno pesanti ricadute sull’istituto democratico e rischiano definitivamente di infiacchirlo.

Insomma… c’è un equivoco di fondo che, prima o poi, dovranno sciogliere sia gli assertori del delirio globalista che i sovranisti. La democrazia – come asserito da Scruton – non esiste al di fuori della nazione e del delimitato spazio di uno Stato nazionale, cosicché la vera sfida sarà tenere sullo stesso tavolo, come obiettivi politicamente realistici, sia la competizione tra Stati che la cooperazione. Nessuno dovrebbe genuflettersi all’altro ma tutti lavorare ad una sorta di continuo equilibrio tra la difesa delle specificità e il rispetto della «convivenza sociale» fra diversi. In realtà, ciò che invece sembra far capolino anche dietro la celebrazione persistente e acritica della UE, è la figurazione dello stato mondiale… continuare a ritenerla un argine alla globalizzazione mentre rischia di rappresentarne solo un passaggio intermedio.

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