L’Occidente tra crisi di identità e scelte future
La crisi dell’Occidente può essere interpretata in due modi opposti e, paradossalmente, è possibile trovare valide argomentazioni a sostegno di entrambi. Da un lato, c’è chi – correndo il rischio di un’eccessiva enfatizzazione – esalta i progressi compiuti, come il drastico calo della mortalità infantile, l’aumento del livello di alfabetizzazione, l’ampliamento dei diritti o la maggiore longevità, frutto di un’intensa ricerca scientifica. Dall’altro, chi sottolinea i deficit strutturali e cade nell’effetto opposto; vale a dire, lo scivolamento nell’autocommiserazione che degenera in una condizione di inerzia e depressione.
Una situazione di conflitto in cui emerge però un dato di fatto innegabile, comune ad entrambi gli schieramenti: la percezione di un declino morale e culturale, accompagnato da un crescente divario tra élite di varia natura (potere polito, università, mass-media) e il popolo. L’Occidente sembra infatti sprofondare in un’autoflagellazione che arriva ad imporre la censura a chiunque non aderisca al politicamente corretto, in particolare nella sua versione ultramoderna del woke, e l’emarginazione per chi non accetta passivamente un ambientalismo radicale, spesso ridotto a ideologia, mentre invece guarda con deferenza minoranze etniche e sessuali nel frattempo elevate a sentinelle della morale.
Nel suo ultimo libro Occidente noi e loro. Contro la resa a dittatori e islamisti (Piemme, p. 224), Daniele Capezzone prende di mira «i nemici della libertà, della democrazia politica e del libero mercato», con particolare riferimento a quei guru, perlopiù progressisti, verso i quali rivolge l’invito polemico a farsi da parte: «Chissà perché questi signori faticano a trasferirsi a Pechino, Mosca o Teheran. Molto meglio restare nei loro comodi salotti di Roma, Parigi, Berlino o New York, per dirci quanto la nostra parte del mondo faccia schifo, sia colpevole di antiche e nuove atrocità, e moralmente responsabile di tutti i mali del pianeta».
Esiste, tuttavia, un’altra prospettiva. Emmanuel Todd, nel suo volume La sconfitta dell’Occidente (Fazi, p. 360), adotta un approccio opposto, basato su un paio di decenni di analisi e previsioni a medio-lungo termine. Todd parte dall’esame dei modelli familiari, delle statistiche demografiche ed economiche, per mettere in luce punti di forza e debolezze dei due paesi in guerra (Russia e Ucraina), dei paesi scandinavi, dell’Europa orientale ma soprattutto dei principali paesi occidentali (Stati Uniti, Regno Unito, Germania e Francia) di cui evidenzia i difetti strutturali, come le ricorrenti crisi finanziarie, la crescente sfiducia nelle istituzioni democratiche, l’ampliamento delle disuguaglianze e la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. Ma soprattutto una cecità nei confronti del nuovo ordine multipolare – in cui gli Stati Uniti non detengono più l’egemonia incontrastata del passato-, per cui una vicenda come la guerra in Ucraina non andrebbe più letta soltanto come un conflitto locale, bensì come un confronto strategico tra potenze in competizione per l’influenza globale.
Presentata in questi termini, entrambe le posizioni sembrano avere valide ragioni e un solido fondamento, sebbene la preferenza si orienterebbe verso il nostro modello, che, pur con i suoi limiti, continua a garantire una partecipazione pubblica e relazioni sociali perlopiù pacifiche e non violente, a fronte dell’emergere di nuove autocrazie caratterizzate dalla persecuzione di dissidenti, dal crescente fondamentalismo religioso e dall’affermarsi di modelli politici che limitano i diritti individuali e sociali.
Per non cadere tuttavia negli eccessi dell’una o dell’altra tesi, c’è forse un’unica via d’uscita: accettare l’idea spengleriana di una storia ciclica, in cui le civiltà passano attraverso fasi di crescita, trasformazione e lunghi periodi di declino. Fatta questa ammissione è poi possibile riconoscere il fatto che l’Occidente, dopo aver toccato apici di potere e influenza, si trovi effettivamente in una fase di profonda trasformazione in cui le insufficienze si palesano ancora di più del passato, e il cui esito finale rimane imprevedibile.