È da qualche settimana in libreria Genealogie del populismo. Per la storia di un concetto paranoico (Mimesis, p.190), volume curato da Damiano Palano con contributi di Yannis Stavrakakis, Anton Jäger, Federico Tarragoni e Salvatore Cingari. Una ricognizione sulla genesi e sulla re-invenzione di questo concetto e sul ruolo giocato dalle scienze sociali. Di seguito, l’introduzione del volume firmata da Palano.

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Anche se non è probabilmente il film tecnicamente più riuscito di Marco Tullio Giordana, Maledetti vi amerò (1980) – il primo lungometraggio del cineasta milanese – costituisce un documento a suo modo eccezionale sul mutamento che investì la società italiana a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Dopo essere partito dall’Italia nel 1973 per l’America Latina, il protagonista della pellicola – un trentenne di estrema sinistra interpretato da Flavio Bucci – tornava in una Milano ormai sulla soglia fatale del nuovo decennio. Incontrava i vecchi compagni, lasciati nei giorni febbrili dell’impegno politico e ormai profondamente cambiati, in larga parte disillusi rispetto ai lontani ideali rivoluzionari, talvolta ripiegati mestamente sulle loro vicende sentimentali, soggiogati dalla droga, o già proiettati verso l’euforia della nascente “Milano da bere”. In una delle scene forse più efficaci del film – che era in fondo un’amara riflessione sul fallimento politico ed esistenziale della “meglio gioventù”, oltre che sul mito della violenza in cui essa aveva almeno in parte creduto – il protagonista si trovava però a stilare una sorta di inventario della cultura della sinistra, “aggiornando” la valutazione su filosofi e personaggi politici – come Enrico Berlinguer, Ugo Pecchioli, Antonello Trombadori, Umberto Terracini, ma anche come Friedrich Nietzsche e Karl Marx – a proposito dei quali, nell’arco di pochi anni, il giudizio si era persino rovesciato. A questo lungo esercizio di catalogazione di ciò che era di destra o di sinistra non sfuggiva il nome di Pier Paolo Pasolini, alla cui tragica scomparsa Giordana avrebbe peraltro dedicato molti anni dopo uno dei suoi film più fortunati. E proprio riguardo al poeta di Casarsa, il protagonista doveva prendere atto di come la valutazione fosse radicalmente cambiata. Perché, se al principio degli anni Settanta era stato considerato come un “irrazionale populista di destra”, dopo la morte era invece diventato un solido e indiscutibile pilastro della cultura di sinistra. L’epiteto che qualificava Pasolini come un “irrazionale populista di destra” era solo in parte una forzatura diretta a enfatizzare lo scarto rispetto ai toni celerativi adottati dopo il 1975. Una valutazione molto simile (politica, più che letteraria) era stata fissata da Alberto Asor Rosa, alla metà degli anni Sessanta, nelle pagine di Scrittori e popolo, per molti versi uno dei più originali testi di critica culturale prodotti dal marxismo radicale, dove l’allora giovane studioso aveva individuato nel poeta, romanziere e regista friulano la cifra della crisi della visione populista caratteristica della tradizione progressista italiana.

Alcuni anni dopo, nel momento più intenso della contestazione, Pasolini – dopo aver scritto una famosa poesia in cui prendeva le parti di quei poliziotti contro cui gli studenti si scontravano dinanzi alle università occupate – fu effettivamente accusato di adottare una prospettiva “populista”, incapace di cogliere la logica dei conflitti propri di una società capitalistica. Dopo la pubblicazione della poesia, le critiche piovvero abbondanti sul capo di Pasolini. Alcuni commentatori conservatori, convenendo con lo scrittore e regista sull’idea che la rivolta studentesca altro non fosse che un fenomeno deteriore, un segno dei tempi e il portato della dissoluzione dei costumi prodotta dal consumismo, intravidero in quella presa di posizione una reazione “contro l’opportunismo intellettuale e la malafede delle troppe mosche cocchiere del movimento studentesco”, come faceva ad esempio Guido Piovene, oppure, come scrisse Goffredo Parise, la positiva e sincera manifestazione di “un artista rabbioso egomane e decadente”. Altri intellettuali e politici, da posizioni più radicali, rimproverarono invece al poeta – secondo le parole di Vittorio Foa – “una visione immobilistica della lotta di classe e del movimento operaio”, un completo fraintendimento delle dinamiche sociali, e persino una vena scandalistica di cui sbarazzarsi come di una inutile “carta acchiappamosche”, come suggeriva causticamente Franco Fortini. Se il politologo marxista Johannes Agnoli, tra i teorici del movimento berlinese, considerava Il Pci ai giovani!! come un “classico della reazione” contro la rivolta universitaria, Jean-François Revel scrisse che Pasolini dimostrava “di mancare dei primi rudimenti della cultura marxista”. E proprio in quel contesto, in una prospettiva simile a quella di Asor Rosa, Claudio Petruccioli – allora segretario della Federazione Giovanile Comunista Italiana – accusò il poeta friulano di vedere la classe operaia sempre e solo “in chiave populista”, senza cioè comprendere le dinamiche del conflitto di classe in una società capitalistica.

Benché il nome dell’autore delle Ceneri di Gramsci non figuri nelle genealogie dei movimenti populisti italiani, non sarebbe forse impossibile ritrovare soprattutto nella sua produzione giornalistica alcuni dei temi che oggi vengono considerati da molti ricercatori come tratti distintivi del populismo: la nostalgia per un passato idealizzato, la mitizzazione di un popolo virtuoso e contrapposto a élite corrotte, o l’immagine del “Palazzo”, che, per la sua indiscutibile forza evocativa, continua a rimanere un simbolo retoricamente efficace del “Potere”. Al di là del giudizio politico, rivedendo oggi il monologo del film di Giordana, risulta però piuttosto significativo soprattutto il fatto che il protagonista, per qualificare il poeta di Casarsa, ricorresse a un aggettivo come “populista”, per di più accostato a un giudizio di irrazionalismo e a una netta collocazione sul versante di destra dello spettro politico. Se nel corso dei quarant’anni trascorsi dall’uscita di Maledetti vi amerò il processo di rilettura del ruolo di Pasolini nella cultura italiana del secondo dopoguerra ha attraversato numerose sequenze, un processo di mutamento altrettanto radicale ha infatti investito anche il termine “populismo”. Nel corso degli ultimi quattro decenni, questa parola non solo ha conosciuto una fortuna strabiliante, ma ha anche visto mutare piuttosto radicalmente il proprio significato e l’ambito di applicazione. E un simile utilizzo, che ha condotto a qualificare come “populisti” leader, movimenti e stili politici tra loro estremamente eterogenei, ha finito col generare perplessità tutt’altro che occasionali sull’appropriatezza del concetto e sulla sua stessa utilità nell’ambito delle scienze sociali. L’inflazione del termine e la dilatazione del campo di applicazione hanno in effetti reso molto difficile capire “cosa” sia davvero il populismo. Se oggi ci si chiede “chi” siano i populisti, fornire una risposta non sembra molto complicato, per il semplice motivo che i giornali, la tv e il dibattito politico contribuiscono pressoché quotidianamente ad affollare la galleria dei leader e dei movimenti populisti. Per fare un elenco solo sommario, sono stati per esempio etichettati come “populisti” leader come Marine Le Pen, Donald Trump, Geert Wilders, Jean-Luc Mélenchon, Matteo Salvini, Beppe Grillo, Hugo Chavez e Jair Bolsonaro, o partiti come il Front National, la Lega, il Movimento 5 Stelle, Alternativ für Deutschland e Podemos.

Ma se ci si pone invece la domanda su “cosa” sia il populismo, al di là delle sue manifestazioni quotidiane, la risposta si rivela ben più ostica, perché ci si imbatte in una difficoltà che nasce principalmente dall’eterogeneità dei fenomeni che sono ricondotti a questa categoria. In altre parole, una definizione adeguata del “populismo” dovrebbe risultare appropriata per ciascuno dei singoli casi che vengono considerati (almeno dalla gran parte degli osservatori) come esempi di populismo, senza al tempo stesso risultare troppo generica. Ma il punto dolente di quasi tutti i tentativi definitori consiste nel fatto che, proprio per l’ambizione di raggruppare casi tanto eterogenei, il concetto risulta alla fine talmente lasco da poter essere applicato anche a leader e movimenti che di solito vengono esclusi dal novero del populismo. Il problema di cogliere l’“essenza” del populismo – o quanto[1]meno di fissarne una definizione condivisa dalla comunità degli studiosi – non è nato con l’esplosione dell’“ondata populista” degli anni Dieci, ma ha radici ben più profonde. Già nel maggio 1967, commentando i lavori di un celebre convegno organizzato dalla rivista “Government and Opposition” presso la London School of Economics, Isaiah Berlin osservò che il dibattito sul populismo rischiava di rimanere vittima del “complesso di Cenerentola”. “Esiste una scarpa – la parola populismo – per la quale da qualche parte esiste un piede”, aveva osservato, ma anche se questa scarpa “va bene per ogni tipo di piede, non bisogna lasciarsi ingannare da quelli che si adattano più o meno bene”, e così il principe azzurro è destinato “a vagare alla ricerca del piede giusto”: perché “da qualche parte, si può esserne certi, ce n’è uno che aspetta, che si chiama il puro populismo”.

In altre parole, gli studiosi che tentavano di chiarire cosa fosse davvero il populismo parevano destinati a cercare all’infinito un caso paradigmatico, una Cenerentola in grado di calzare perfettamente la scarpetta di una definizione teorica. E l’annotazione di Berlin coglieva un punto davvero problematico di quella discussione. Perché, a mezzo secolo di distanza, il populismo – di cui pure nel mondo sembrerebbero esistere tante varianti – appare oggi ancora più inafferrabile. Cinquant’anni fa, gli scienziati sociali occidentali potevano in effetti considerarlo come un fenomeno sostanzialmente “extraeuropeo”, caratteristico di società ancora prevalentemente rurali o investite da un processo di rapida modernizzazione. Il termine “populismo” era cioè adottato per indicare movimenti, partiti e leader che apparivano ben diversi – dal punto di vista ideologico e da quello organizzativo – dai protagonisti delle democrazie “mature”. Al contrario, oggi il populismo è considerato sempre più spesso un fenomeno “globale” e tutt’altro che estraneo alle democrazie occidentali. Ma né la fortuna politica dei populismi, né la crescita delle ricerche dedicate a questo fenomeno, sembrano aver sostanzialmente contribuito a risolvere il rompicapo di una definizione teorica. E così il dibattito continua a protrarsi, senza approdare a soluzioni condivise.

Le difficoltà di cogliere l’“essenza” del populismo sono per molti versi comuni a quelle che contrassegnano la definizione di molti dei concetti utilizzati dalle scienze sociali. La questione nasce, in primo luogo, dalla complessa ricerca, nella definizione di un concetto, di un equilibrio tra intensione ed estensione, oltre che, in secondo luogo, dall’individuazione di un punto di equilibrio tra l’ancoraggio storico-etimologico e la precisazione del suo significato ai fini di un utilizzo empirico. Sotto il primo profilo, la costruzione di un concetto utilizzabile ai fini della ricerca empirica si colloca infatti sempre in un continuum ai cui estremi opposti si trovano, da un lato, un massimo di estensione (o denotazione), e, dall’altro, un massimo di intensione (o connotazione). In altri ter[1]mini, se un concetto ha una notevole estensione significa che ha una portata più generale: dunque può essere applicato a un numero ampio di oggetti, ma, contestualmente, il numero di caratteristiche che lo contraddistinguono (l’intensione) diminuisce. Al contrario, se aumenta l’intensione, significa che gli attributi del concetto aumentano notevolmente, mentre si riduce l’estensione, ossia l’ampiezza dell’insieme di referenti empirici a cui può essere associato. L’equilibrio più appropriato dipende dalla scelta del ricercatore e soprattutto dalla valutazione del livello della scala di astrazione più adeguato al tipo di indagine che si intende condurre. Gli studi sul populismo si trovano così innanzitutto alle prese con la difficoltà di collocarsi al livello più adeguato di una simile scala di astrazione. In sostanza, si può decidere di conservare un alto livello di estensione, e dunque di considerare anche i casi storici di populismo; ma ciò può comportare un impoverimento del concetto sul lato dell’intensione, col risultato che le proprietà di connotazione si indeboliscono a tal punto da rendere il concetto evanescente e dunque inservibile.

All’opposto, si può decidere di privilegiare il versante dell’intensione, concentrandosi solo sui casi più recenti e dunque arricchendo il concetto di elementi che si riscontrano solo nei movimenti populisti contemporanei (e dunque, per esempio, inserendo nella definizione riferimenti alla democrazia diretta online o alla protesta contro i flussi migratori); ma il rischio in questo caso è di recidere ogni legame tra il “neopopulismo” e tutti quei leader e quei partiti che nel passato (remoto o recente) sono stati definiti populisti.

Sotto il secondo profilo – relativo al rapporto di un concetto con il suo “ancoraggio storico” – la definizione di “populismo” si imbatte in un ostacolo altrettanto insidioso. In generale, le scienze sociali si trovano sempre alle prese anche con una difficoltà che discende dalla specifica natura dei fenomeni studiati. La gran parte dei concetti utilizzati dalle scienze sociali non si riferisce cioè a oggetti “materiali” (come quelli indagati dalle scienze naturali), ma a entità “immateriali”, e cioè a costruzioni culturali, come lo “Stato”, il “sistema politico”, la “democrazia”, l’“ideologia socialista”, il “terrorismo”. Dire che si tratta di entità “immateriali” non significa certo che essi non abbiano alcuna connessione con la “realtà materiale”, e che dunque non siano riconducibili a referenti empirici, ma vuol dire piuttosto che questi soggetti “immateriali” – cui possiamo imputare delle azioni, oppure la causa di determinati fenomeni – non esistono indipendentemente dalle rappresentazioni che gli esseri umani ne danno storicamente. E proprio per questo, la definizione dei concetti empirici che utilizzano le scienze sociali si imbatte sempre in due ulteriori difficoltà: per un verso, l’ambiguità dei concetti, dovuta al fatto che le parole nel linguaggio comune hanno molti significati, mentre il linguaggio scientifico richiede che vengano eliminati significati incerti; per l’altro, la vaghezza di quei concetti che “non indicano con sufficiente chiarezza il proprio referente, le cose cui si riferiscono”. Se per questo è necessario definire chiaramente i concetti, e cioè eliminare il più possibile margini di ambiguità e vaghezza, è però anche impossibile fare interamente a meno di un “ancoraggio storico”: in altre parole, proprio dal momento che i concetti si riferiscono a oggetti immateriali – che sono cioè l’esito di processi di elaborazione culturale – non è possibile trascurare completamente il significato che a un determinato termine viene assegnato dal senso comune, dal linguaggio quotidiano e dunque dagli attori politici e sociali. Per effetto dello scarto tra il significato ordinario di un termine e il significato ben più definito che deve assumere il linguaggio scientifico, quasi inevitabilmente il significato dei concetti adoperati dai politologi e dagli scienziati sociali non coincide totalmente con quello che ai medesimi concetti è attribuito dai diversi soggetti attivi sulla scena politica o dai comuni cittadini, e ciò avviene per esempio in modo emblematico per concetti come “democrazia”, “uguaglianza”, “libertà”, “giustizia”. E proprio nozioni di questo genere vengono di solito definite “concetti essenzialmente contestati”, ossia concetti il cui nucleo valoriale è destinato a essere sempre al centro di discussioni.

Se le scienze sociali, quando costruiscono i loro concetti empirici, si trovano dunque sempre alle prese con la difficoltà di rimanere in equilibrio sia tra intensione ed estensione, sia tra l’esigenza di precisione definitoria e il rispetto di un ancoraggio storico-etimologico, questo compito è particolarmente complicato per coloro che non intendono rinunciare al concetto di “populismo”. In questo caso, l’ancoraggio storico-etimologico di cui gli studiosi dovrebbero tenere conto è molto differente da quello proprio di altri ismi apparentemente analoghi. In primo luogo, a differenza di formule come “socialismo”, “comunismo”, “fascismo” o “liberalismo”, l’etichetta di “populismo” di solito non viene rivendicata come bandiera di identificazione da coloro che vengono fatti rientrare in questa famiglia, se non occasionalmente e per lo più in termini provocatori, per ribaltare l’accusa di utilizzare strumenti di propaganda demagogici. Molto più di frequente, la formula viene invece adoperata in un’accezione esplicitamente spregiativa da qualcuno che, qualificando come “populista” un determinato soggetto politico (spesso un avversario), intende biasimarne le modalità di comunicazione, gli stili organizzativi, le piattaforme programmatiche e metterne in questione la reale democraticità. Nel linguaggio giornalistico e della polemica politica, definire il proprio avversario come “populista” equivale cioè ad accusarlo di utilizzare una retorica demagogica, di blandire i cittadini con promesse irrealizzabili, di aizzare i più biechi risentimenti per fini elettorali. In altre parole, la costruzione del concetto si trova di fronte a un ostacolo rappresentato da una marcata distorsione valoriale che, già nel linguaggio comune, tende ad assegnare al populismo una connotazione negativa: una connotazione che non si rinviene, per esempio, in concetti – altrettanto difficili da definire con precisione – come “democrazia”, “libertà” e “socialismo”; pur avendo conosciuto nella loro storia potenti critiche e contestazioni frequenti sul loro significato, tali concetti hanno trovato però negli ultimi due secoli anche convinti alfieri, i quali hanno fatto di quelle idee i riferimenti cruciali di complessi sistemi dottrinari. In secondo luogo, è utile tenere presente che il rompicapo del populismo è legato anche a un altro tipo di distorsione valoriale, che non riguarda solo l’uso che se ne fa nel linguaggio ordinario, o nella polemica politica. In modo meno evidente, nel concetto adottato dalle scienze sociali si annida una distorsione che riguarda le stesse modalità con cui storicamente quel concetto si è formato. Come mostrano alcuni dei saggi compresi in questo volume, una connotazione polemica e un intento denigratorio possono essere infatti rinvenuti già nella stessa costruzione del concetto di “populismo” un concetto che le scienze sociali iniziarono a elaborare tra gli anni Cinquanta e Sessanta, “assemblando” in un’unica categoria teorica i tratti deteriori di movimenti eterogenei, del tutto privi di parentele ideologiche e accomunati solo da affinità molto generiche. Così, se per un verso gli studiosi devono tenere conto di un simile “ancoraggio storico”, dall’altro, proprio un simile ancoraggio, così fortemente connotato, imprime al concetto una distorsione tale da renderne molto problematico – se non addirittura impossibile – un utilizzo privo di incrostazioni valoriali. Questo volume non ha l’ambizione di superare il “complesso di Cenerentola”, ma si propone più semplicemente di portare alla luce alcune delle motivazioni che rendono complicato – seppur non impossibile – utilizzare il termine “populismo” nelle scienze sociali. Alcuni dei contributi – in particolare quelli di Damiano Palano, Yannis Stavrakakis, Anton Jäger e Federico Tarragoni – offrono elementi proprio per una “genealogia” del concetto di “populismo”. La scelta del termine “genealogia” non è fortuita, ma si richiama direttamente alle ricerche genealogiche di Michel Foucault e in particolare al suo tentativo di portare alla luce come, nei processi di costruzione del sapere[1]scientifico, siano sempre all’opera conflitti che hanno per oggetto la distinzione tra “vero” e “falso”, oltre che la fissazione di una linea di confine tra “normale” e “patologico”. L’obiettivo di questo volume – che raccoglie i contributi di studiosi accomunati da coordinate interpretative simili – è dunque mettere in luce come la genesi del concetto di populismo – o, meglio, la sua “re-invenzione” – sia inestricabilmente connessa al ruolo giocato dalle scienze sociali e alla costruzione di una sorta di alterità “patologica” rispetto alla norma della democrazia liberale. I primi quattro capitoli convergono nell’individuare una svolta cruciale negli anni Cinquanta, quando – reagendo al clima della “caccia alle streghe” – alcuni intellettuali liberal americani costruiscono, a partire dalla rilettura della vicenda storica del People’s Party di fine Ottocento, una categoria generale di “populismo” (con la “p” minuscola): una categoria utilizzabile non solo per identificare una corrente sotterranea della cultura politica americana, ma anche per qualificare partiti, movimenti e leader politici che nulla avevano a che vedere con il People’s Party e con gli Stati Uniti, e che nondimeno presentavano elementi comuni, in gran parte connessi con la loro ostilità ai principi di fondo della democrazia liberale, di cui dunque dovevano essere inevitabilmente dipinti come nemici più o meno radicali. Arricchendo il discorso, ma guardando più specificamente verso il contesto politico e culturale italiano, il capitolo di Salvatore Cingari ricostruisce invece l’utilizzo dell’espressione “populismo” da parte di Antonio Gramsci: il lavoro di Cingari – tenendo conto anche della discussione recente e, in special modo, dell’utilizzo di concetti come “populismo” ed “egemonia” da parte di teorici post-marxisti come Ernesto Laclau e Chantal Mouffe – precisa innanzitutto il significato che il pensatore sardo attribuisce al termine, ma sottolinea anche i limiti dell’interpretazione avanzata da Asor Rosa, che in Scrittori e popolo attribuì al pensatore sardo una concezione del “popolo” in realtà ben distante da quella che si può riconoscere nelle pagine dei Quaderni.

Se le circostanze della genesi costituiscono un problema per un utilizzo neutrale di “populismo”, non è però detto che il concetto non possa essere utilizzato proficuamente e dunque liberato da quelle “incrostazioni” valoriali che ha ereditato da una storia tanto intricata. Ciò probabilmente richiede però che venga messa in discussione la logica neo-positivista che, più o meno esplicitamente, orienta gran parte della ricerca politologica contemporanea sul fenomeno. Gli alfieri dell’approccio “ideazionale” allo studio del populismo – che rimane indubbiamente l’approccio prevalente nella comunità politologica europea – tendono infatti ad adottare più o meno esplicitamente proprio una strategia definitoria neo-positivista, che si propone cioè di costruire classificazioni esaustive, le cui classi siano inoltre mutuamente esclusive: per questo, il populismo viene concepito come un’ideologia (o una più generica visione del mondo) con tratti ben identificabili e soprattutto ben distinti da quelli propri di altre ideologie. In questa prospettiva, il populismo identifica una specifica casella di una più ampia classificazione, nella quale i partiti, i leader e i movimenti possono rientrare o non rientrare (e da cui sono naturalmente esclusi i soggetti ricompresi in altre classi). Sono in effetti proprio i sostenitori di questo approccio ad adottare più di frequente il concetto di populismo in modo poco consapevole del suo peculiare “ancoraggio storico”. E la conseguenza pressoché inevitabile è di concepire il populismo sempre come un’ideologia minacciosa per il pluralismo e per le istituzioni liberal-democratiche. Questo approdo non è però inevitabile. I ricercatori che adottano un approccio “strategico”, o, in modo ancora più netto, quelli che utilizzano un approccio “discorsivo-performativo” sono in grado di evitare il cortocircuito innescato dalla convinzione di poter vedere nel populismo una “cosa” o un’ideologia chiaramente definita, e non una componente della pratica politica, in cui, oltre al ricorso all’“appello al popolo”, sono rilevanti le modalità in cui il popolo stesso viene retoricamente raffigurato e costruito. Più che proporsi di superare il “complesso di Cenerentola”, questo volume si propone perciò di contribuire a sviluppare una discussione sulla possibilità di utilizzare la nozione di “populismo”, a dispetto di tutti i limiti che segnano il concetto e che ne contrassegnano l’utilizzo. I testi che sono qui presentati devono essere dunque accolti al tempo stesso come una sorta di bilancio della discussione condotta soprattutto negli ultimi dieci anni e come un invito a raccogliere teoricamente la sfida che il “momento populista” ha rappresentato anche per la comprensione delle trasformazioni politiche in atto. Benché sia probabile che l’ondata populista vissuta da molte democrazie nel corso degli anni Dieci si sia conclusa, o abbia assunto ormai caratteristiche differenti, è altrettanto probabile che quella stagione abbia comunque lasciato sulla fisionomia dei sistemi democratici (non solo occidentali) un’impronta profonda e abbia reso indispensabile pressoché per tutti gli attori politici adottare quegli stili, quelle retoriche e quelle modalità operative che fino ad alcuni anni fa si ritenevano prerogative esclusive dei “populisti”. Ed è forse anche per questo che, per comprendere davvero lo Zeitgeist populista, è necessario superare quantomeno alcuni degli equivoci ereditati dalla tormentata genesi di un concetto paranoico.