Lovecraft e l’abisso del moderno

Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco, coppia consolidata nel panorama degli studi sul fantastico e su H.P. Lovecraft, tornano a confrontarsi con il celebre autore di Providence, riprendendo un lavoro del 1979 e arricchendolo con nuovi capitoli e saggi inediti.
Il volume H.P. Lovecraft. Poeta dell’abisso (Bietti, p. 310) si presenta, questa volta, non solo come un manuale esaustivo, ricco di informazioni di ogni tipo, adatto a letture di diversa intensità, e quindi con una narrazione che include dettagli biografici e aneddoti curiosi, ma anche come un’analisi approfondita dell’intera opera. Esplora infatti le connessioni letterarie, filosofiche ed esoteriche della sua produzione, senza tralasciare uno sguardo critico e attento alla vasta letteratura secondaria e ai contesti editoriali che hanno contribuito alle scomposizioni più o meno positive dei testi.
Quando Lovecraft fece il suo debutto in Italia negli anni ‘30, era poco conosciuto dal grande pubblico. Il contesto culturale influenzò non solo la qualità delle traduzioni, ma le stesse edizioni, spesso compromesse da tagli e revisioni le quali, anziché migliorare i testi, finivano per alterarne il senso. E tale situazione perdurò per molti anni. Partendo da questa constatazione, De Turris e Fusco decidono in primo luogo di affrontare la cosiddetta “questione Lovecraft”, facendo luce sulle operazioni editoriali degli anni passati, tra cui per esempio la revisione curata da Fruttero e Lucentini per una loro antologia del 1962, che arrivò addirittura a semplificare e modificare in modo significativo le opere del maestro dell’orrore. E poi, in secondo luogo, esplorando con grande attenzione tutto il panorama intellettuale che si mosse intorno all’opera lovecraftiana, fornendo nomi e dettagli su editori e traduttori avvicendatisi nel corso del tempo e che, nel genuino tentativo di diffonderne l’opera, lo hanno fatto spesso senza una piena consapevolezza della complessità filologica e dei contenuti.
De Turris e Fusco non si limitano ovviamente a un’analisi delle dinamiche editoriali. Offrono infatti una riflessione approfondita sull’evoluzione del pensiero e della scrittura di Lovecraft. Esaminano la sua giovinezza, la sua esperienza poetica, l’ampio epistolario, le sue teorie filosofiche e la vasta mitologia che ha dato vita a un intero universo narrativo. In questo contesto, gli autori propongono una visione che non solo rende omaggio a Lovecraft – il quale, pur morendo nel 1937 senza raggiungere la fama che avrebbe poi conquistato, è oggi riconosciuto come uno dei pilastri della letteratura fantastica del Novecento – ma lo colloca finalmente al posto che merita.
Particolarmente interessante è la tesi riguardante il rapporto tra il pensiero dello scrittore e il concetto di “cultura della crisi”. Secondo i due autori, per una comprensione piena della condizione contemporanea, è fondamentale fare riferimento a tre pensatori che hanno esplorato il fantastico in modo profondamente originale: Jorge Luis Borges, John Ronald Reuel Tolkien e, naturalmente, Howard Phillips Lovecraft. E forse hanno ragione! Lovecraft, in particolare, si configura come un punto di riferimento imprescindibile per chi desidera accedere alle “chiavi della prigione” della realtà, intraprendendo un viaggio che si svolge nell’interiorità dell’animo umano ancor rima di decrittare tutti i deficit del moderno e dell’età del materialismo. Un viaggio che perciò porta in un abisso che non è semplicemente una fuga nell’immaginario, ma una discesa consapevole negli inferi del nostro inconscio. Per Lovecraft, infatti, il sogno non è un semplice atto di evasione, ma una via per confrontarsi con le proprie paure più profonde, portandole alla luce e, in qualche modo, rendendole controllabili e non distanziabili.
Nel volume si mette in evidenza l’evoluzione dell’opera di Lovecraft, che passa dal suo approccio iniziale alla scrittura, spesso influenzato da una formazione autodidatta, fino alle ultime e più complesse fatiche, nelle quali la visione cosmica del male e l’indifferenza dell’universo diventano sempre più pregnanti. Ciò che emerge, infatti, è la sua costante riflessione sul destino dell’uomo, imprigionato in una realtà che sembra sfuggirgli di mano e che va ricompresa e non solo definita nella sua cornice terrificante. Qui si trova lo snodo cruciale: l’orrore non proviene solo dal mondo esterno, ma anche dall’individuo stesso, cioè dall’accettazione e dalla consapevolezza della propria condizione di essere finito e vulnerabile. Il mostro diventa così la rappresentazione di queste forze interiori, delle paure ancestrali a cui l’uomo non può sfuggire, se non attraverso l’arte, la fantasia e una visione poetica. In quest’ottica, a farsi portatori di una resistenza contro le forze della massificazione e della banalizzazione della vita non possono che essere, per l’appunto, l’esteta, il sognatore e l’artista.
Il volume di De Turris e Fusco, dunque, non solo offre una panoramica dettagliata sull’opera, ma fornisce strumenti critici per interpretare la sua eredità nel contesto della cultura moderna. La visione lovecraftiana, infatti, non è mai stata così attuale proprio perché permane come un invito a scoprire, attraverso l’orrore, la possibilità di una nuova forma di consapevolezza, in cui il male e il mostro non sono da temere, ma da comprendere come segni di una coscienza del sé che può precedere il cambiamento.
