L’anniversario del mio quinto anno dall’intervento comprende due date. Della prima vi ho già parlato, era il 15 ottobre, giorno del settimo compleanno della principessa grande. Anestesia locale per togliere un fibroadenoma (presunto: in realtà era un tumore) e la sera già a casa a festeggiare il mio amore.

Poi, otto giorni che scorrono uguali agli altri. E quella telefonata alla senologa Giacomina Moro (“ci dobbiamo vedere, la situazione è complessa”). Mi presentai spensierata, sorda e cieca davanti alle facce immobili che avevo di fronte. Imparai allora che quando hai un tumore il medico non te lo dice sul muso, si comporta come un fidanzato che si allontana “perché deve riflettere”. Ci sono verità innominabili. Tabù. Non si dice “stai per morire”, come non si dice “hai un cancro” o “non ti amo più”. Su, sveglia, Gioia. Sveglia, sveglia, sveglia…

Passano anche le altre tre settimane e mezzo. A volerle ricordare, le peggiori di questi cinque anni. Col senno di poi vi posso dire che ho un solo grande rimpianto, quello di non essere riuscita a studiare il tumore per conto mio, non aver colto allora quello che ho intuito man mano e quasi compreso oggi. Già, non sono mai riuscita a prepararmi in fretta, usando i bigini

L’intervento è fissato per il 12 novembre. Mi piace la data del quinquennio, 12-11-12, perché ha l’armonia delle simmetrie. Non ci fu day-hospital, questa volta, ma un vero ricovero. Una stanza in ospedale e una compagna di camera.

Vi presento Simona. Lei è stata per me ben più di una presenza gioiosa. Tre notti e tre giorni – vi assicuro – di risate, complicità, via vai di amiche (le sue), scorpacciate di clementini. Anch’io, come 28 anni fa Miranda M., sono stata fortunata. Non ero finita in un reparto triste. Tutt’altro. Simona ha tre anni meno di me e ci lavora in questo ospedale. Terzo piano, prima stanza a destra, lì c’è lei. E c’è sempre per tutti, pazienti, medici, impiegati. È Simona che fissa i ricoveri, sposta gli appuntamenti, sbroglia i pasticci.

Passati i giorni in ospedale, Simona è rimasta nella mia vita, come una seconda sorella acquisita. Lei per me è la Simo, io per lei la Jo. Quando mi presenta a qualcuno in ospedale, dice seria seria: “Lei è la mia compagna di letto”. E poi, chiusa la porta, ce la ridiamo.

 

 

 

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