Un’indagine dell’Istituto Superiore di Sanità sulle acque reflue della Penisola mostra che chi si infetta di coronavirus non contrae più il Sars-Cov-2 originale ma la variante Delta e le sue sotto-varianti.

Il lavoro, coordinato da Giuseppina La Rosa del dipartimento Ambiente e salute e da Elisabetta Suffredini del dipartimento di Sicurezza alimentare e sanità pubblica veterinaria dell’Iss, ha analizzato 92 campioni raccolti in 16 regioni e province autonome dal 4 all’8 ottobre 2021. Il 60% è risultato positivo al genoma del virus.

Le ricercatrici parlano di “presenza ormai quasi esclusiva sul territorio nazionale della variante Delta associata a una grande variabilità genetica con la presenza di molte mutazioni comprese quelle della cosiddetta Delta Plus”. 

Novantadue campioni sono stati prelevati in 14 Regioni (Liguria, Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta, Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Abruzzo, Lazio, Toscana, Campania, Basilicata, Puglia e Sicilia) e nelle due Province Autonome di Trento e Bolzano. Dei 55 campioni positivi alla variante Delta, 19 hanno mostrato sue mutazioni caratteristiche, mentre 12 – raccolti a Rovereto (TN), Verona, Padova, Abano Terme (PD), Genova, Bologna, Anzio (RM), Bari e Messina – hanno mostrato l’intero set di mutazioni.

Lo chiede l’Europa

Questa indagine verrà ripetuta ogni mese. A chiedere di avviare la sorveglianza del coronavirus nelle acque reflue è stata, il 17 marzo, la Commissione europea che ha fortemente incoraggiato gli Stati membri ad avviare il sistema di sorveglianza entro e non oltre I’1 ottobre 2021. La raccomandazione della Commissione Ue è stata recepita con il decreto legge n. 73 del 25 maggio.

Ricordiamo che è stato proprio il controllo delle acque reflue a mostrare che il Sars-Cov-2 era presente fin dal maggio del 2019 in Spagna e, nel novembre dello stesso anno in Italia e Brasile. Cliccate qui. (Per gli altri Paesi citati nell’articolo linkato furono diverse indagini a rilevare la presenza del virus pre-pandemia).

Ma i vaccini non sono cambiati

La domanda sorge spontanea: visto che numerosi studi stanno mostrando che la protezione data dai vaccini dura circa sei mesi e si stanno proponendo le terze dosi, come mai queste ultime non sono aggiornate per le varianti? 

Come mai ci si appresta a risolvere un problema di qualità (mutazioni di un coronavirus) con …la quantità (tre o più dosi dello stesso vaccino, tutte uguali)?

Nel documento OMS di giugno, leggiamo che nulla si sa dell’azione del vaccino Moderna sulla variante Delta: “L’impatto delle varianti preoccupanti sull’efficacia del vaccino rimane fino ad oggi sconosciuto, in particolare per la variante Delta (B.1.617.2)”. Cliccate qui. Poi sono usciti altri lavori, non dell’OMS, che hanno parlato di un’efficacia del Moderna, se pur parziale, sulla Delta. Qui trovate il report dei CDC di novembre che conclude dicendo che “i vaccini approvati sono un aiuto contro le varianti Delta e le altre varianti conosciute”. Segue raccomandazione di indossare sempre la mascherina quando ci si trova in un luogo chiuso, anche se vaccinati.

Quanto al Pfizer – nonostante la sacra aureola da cui è ammantato che fa supporre  rimanga l’unico vaccino senza competitor per l’ Occidente – leggiamo, sempre da documento OMS, che perfino il Pfizer con alcune varianti “funzionicchia”: “Dati preliminari mostrano una certa riduzione dell’attività di neutralizzazione di COMIRNATY® contro la variante Beta (B1.351), nonché contro Gamma (P1) e Delta (B1.617.2)”. Cliccate qui. In questo caso l’aggiornamento OMS è di settembre ma poi il successivo documento dei CDC include anche il Pfizer.

Il test sui linfociti T 

In questi due anni di pandemia alcuni studiosi si sono chiesti come mai non sia ancora stato realizzato un test capace di analizzare i linfociti T o le plasmacellule, che sono le cellule che producono gli anticorpi. Si tratta di test capaci di rilevare i linfociti del sangue che contengono una memoria duratura delle infezioni virali, ben più estesa nel tempo rispetto a quella data dalle proteine IgG/IgM riscontrabili con l’esame sierologico.

La FDA in realtà li ha autorizzati, già in marzo, cliccate qui e qui (in commercio ora ve ne sono diversi) ma nessuno ne parla. 

Ci spiega Stefano Petti, docente alla Sapienza (dipartimento Sanità Pubblica e Malattie Infettive) che si tratta di “validi strumenti per verificare se si è immuni al virus, migliori dei test che ricercano gli anticorpi. Ma, esattamente come gli anticorpi del tipo IgG/IgM, la loro presenza non esclude il rischio di infettarsi e di infettare altre persone”.

Sono una difesa del sistema immunitario?

“Esattamente, e molto più duratura nel tempo rispetto ai primi anticorpi che scompaiono dopo qualche mese. Poter verificare la presenza della positività dei linfociti T o delle plasmacellule con memoria è un dato importante perché è grazie all’intervento di questi linfociti che uccidiamo le cellule umane infettate dal virus bloccando quindi la propagazione dell’infezione nel nostro corpo. Gli anticorpi IgG/IgM eliminano i virus che circolano nel sangue ma non quelli che si trovano all’interno delle cellule umane. In caso di infezioni virali i virus entrano necessariamente nelle cellule per potersi riprodurre, per questo l’efficacia degli anticorpi IgG/IgM sarà sempre incompleta”.

Quanto dura la protezione dei linfociti T rispetto agli anticorpi IgG/IgM?

“Gli anticorpi scompaiono dopo qualche mese ma le cellule attivate dalla stimolazione antigenica no, è il principio su cui si basa l’immunità acquisita che resta per sempre. Il nostro organismo non ha bisogno di essere sempre reattivo nei confronti di un microrganismo patogeno se non è esposto all’infezione, ma quando lo incontra di nuovo, se il corpo ne ha memoria, ecco che il sistema immunitario è pronto.

Tuttavia questi test hanno un limite: cercano i linfociti T (alcuni anche i B) attivati che sono circolanti nel sangue mentre dopo un po’ queste cellule entrano nei linfonodi, o nel midollo osseo, in attesa, a volte più che decennale, di essere richiamati al lavoro. Per cui anche il loro numero nel sangue è destinato a diminuire di molto o forse a scomparire dopo un anno o due. Tuttavia, è un passo molto molto molto in avanti rispetto alla (inutile) ricerca degli anticorpi”.

Indipendentemente dai test, chi ha contratto il Sars-Cov-2 dovrebbe avere un’immunità per la vita?

“Sì. Così come succede per le altre infezioni virali sostenute da virus a RNA, anche le infezioni da Sars-Cov-2 successive a una precedente infezione (o al vaccino) sono principalmente dovute alle importanti mutazioni del virus, non alla perdita di efficacia dell’immunità. Ma con questa pandemia stiamo cancellando tutto ciò che abbiamo imparato in decenni di immunologia e vaccinologia…”

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