Il nono giorno di Ottobre di anni diversi, 1936 e 1963, due dighe idroelettriche furono le protagoniste di altrettanti eventi: il primo benefico, il secondo catastrofico.

Il 9 Ottobre 1936, l’elettricità generata dal bacino della diga Hoover, sul fiume Colorado, attraversò per la prima volta 400 chilometri di deserto, valli, montagne, e illuminò la città di Los Angeles.

Il 9 Ottobre 1963 la diga del Vajont provocò la peggiore catastrofe in Italia dalla fine della seconda guerra mondiale. L’opera è ancora là, bellissima e imponente, ma costruita semplicemente dove non avrebbe mai dovuto essere. Il bacino artificiale generato dalla diga, infatti, sciacquava, stuzzicava e smottava la base di un’enorme frana sulle pendici del monte Toc.

Nel suo celebre monologo teatrale presentato nel 1993, Marco Paolini descrisse l’origine di quel nome: in Veneto “toc” significa “pezzo”; in Friuli “patòc” significa “marcio”. I cimbri erano una tribù di barbari ignoranti quando okkuparono quella valle più di due mila anni fa, eppure l’onomatopea di quel suono, toc, è l’equivalente di una scritta a caratteri cubitali per le rampanti generazioni future: vietato costruire dighe nella valle del “monte marcio”!

Alle 22:39 di quella notte di Ottobre, una frana con 260 milioni di metri cubi di roccia scivolò nei 50 milioni di metri cubi d’acqua del lago del Vajont. Un’onda gigantesca scavalcò la diga, e in pochi secondi cancellò cinque paesi: Longarone, Pirago, Rivalta, Codissago e Faè. Mauro Corona quel giorno aveva 12 anni e viveva a Erto, un paese a monte della diga, dall’altra parte del lago rispetto al monte Toc. In un’intervista, lo scrittore usò una metafora per tentare di descriverne il rumore: «Hai presente il frastuono che fa un camion di ghiaia quando ribalta il cassone? Ecco. Un milione di camion che rovesciano un milione di cassoni di ghiaia!».

Nel disastro del Vajont persero la vita circa duemila persone, ma la cifra esatta non la conosceremo mai.

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