Il 26 Luglio di quest’anno è mancato mio Padre (foto, circa 1938). Pochi giorni fa abbiamo trovato nel suo computer una storia bellissima, emozionate e anche un po’ folle. Narra di un suo trauma personale accaduto a Noli nel 1942, e tenuto segreto. Quel trauma condizionò tutta la sua vita (e mi viene da aggiungere, anche quella dei suoi famigliari più intimi).

Nel 2018 mio Padre ha sentito l’urgenza di lasciare qualcosa di scritto, ma forse non aveva più la forza di mettere in ordine le parole, e il racconto originale è un gerbido pazzesco di pensieri e avvenimenti che partono dal 1938, fino ai giorni nostri.

Mi sono bastate poche righe per capire di avere trovato un diamante grezzo. Tutte le parole qui riportate sono sue: il mio unico contributo è stato di metterle in ordine, sfrondando quelle che distraevano dal tema centrale.

 

Il Convitato di Pietra

di Mario Pogliano

 

Eravamo seduti sul muretto bianco al piano terra sotto la scritta “Bagni Anita”. Lei, dodicenne come me, era nella posizione più vicina alla passeggiata, io di fianco, entrambi rivolti verso le porte interne dello stabilimento.

Più tardi, dopo l’incidente, quando la rividi alla fontanella e ascoltai la spiegazione della sua governante, non fui capace di mostrare una qualsiasi forma di emozione, affetto, amicizia o compassione. Non chiesi scusa, e me ne andai senza dire una parola. E’ quasi incredibile che io mi fossi comportato in quel modo. In seguito nessuno dei suoi familiari mi disse nulla, e credo che nè Lei e neppure la governante avessero raccontato fino in fondo quello che era successo, cioè l’entità del mio grave gesto.

Mi è rimasta una incancellabile memoria negativa di quel fatto, soprattutto per il grande affetto che riponevo in Lei che non fui capace di esprimere e, più tardi, di recuperare.

Quasi certamente era Domenica 6 Settembre 1942. Dopo tutti questi anni, vorrei almeno poterle scrivere. Scusarmi. Parlarle, ma bisognerebbe che oltre che intercettare i miei pensieri (sono quasi certo che sia successo), mi chiamasse.

Non ho mai raccontato a nessuno quello che avvenne quel giorno. Tra gli anni ’40 e ’50 descrissi con carta e penna il mio disagio interiore. Più tardi decrittai quel disagio in termini meno fanciulleschi, e riportai sul computer le annotazioni scritte a mano da ragazzino. Lo feci ancora prima di sapere che esistesse il mestiere di “analista”, professione alla quale mi rifiuto di dare valore, avendo conosciuto alcuni addetti ai lavori. Chi, per caso o per volontà, si sforzerà di leggere ciò che ho scritto, si rassegni a non capire fino in fondo tutta la storia.

Per non dipendere da altre interpretazioni, poco prima di sposarmi buttai via le note perlopiù crittografate. La crittografia l’avevo inventata come gioco a scuola in quarta elementare. Era ottima perché nessuno la capiva, a volte neanche io. L’avevo perfezionata al collegio Rosmini di Stresa, per comunicare via posta con il mio amico Franco Urani, detto Bobo, in modo da evitare di essere intercettati dal censore, Padre Cereda. Sotto certi aspetti, oggi posso comprendere e approvare l’utilità di tale figura, ma in quei giorni l’opera del censore mi sembrava solo un’obbrobriosa interferenza.

Un giorno, padre Cereda mi consegnò una busta aperta, e disse: «Guarda che Bobo io lo conosco bene, perché a Torino ha frequentato le elementari con me come Padre Spirituale. Conosco anche te, e son convinto che non abbiate nulla da nascondere». «Eh no, caro Padre» NON fui capace di rispondere. «Abbiamo alcune cose non troppo innocenti di cui è meglio tenere lei e i nostri genitori all’oscuro».

Bobo, per esempio, non voleva che i genitori sapessero come la sua bicicletta fosse finita schiacciata sotto le ruote della corriera Martoglio nel tragitto Giaveno Coazze. Il pullman lo aveva evitato solo per un pelo mentre era a terra, sbalzato dalla sella. Fu una fortuna che non aveva i clips ai pedali. Bobo voleva invece potermi informare che quel “certo autista” (forse figlio dello stesso titolare Martoglio) era pazzo, e aveva cercato di metterlo sotto per dare un taglio definitivo al traino abusivo del ciclista, in salita da Giaveno a Coazze. Fu praticamente un tentato omicidio per abuso di traino.

Ma sto divagando. Avevo un problema grave, anche se sparato così può far ridere: una “Lei” mia coetanea mi aveva catturato e tenuto in ostaggio tra gli 8 e i 12 anni: è di questo che voglio scrivere. Tutto il resto è solo contorno per spiegare il mio disastro iniziale che ha contribuito a non farmela più incontrare, e la successiva guarigione.

Le prime annotazioni crittografate erano riferite al periodo tra il 1938 e il 1942, scritte dal Novembre del ’42, quando sfollammo da Torino a Sangano, fino all’Ottobre ’44, quando tornammo in città, tra le macerie di casa nostra in via Caboto 18.

Ricordo molto bene la depressione che mi assaliva ogni volta che tornavo da Noli a Torino. La depressione era diventata una costante dopo il 1942, per tutta la durata della guerra e oltre. E’ il disturbo per cui molte cose della mia vita furono condizionate, come i miei risultati scolastici.

La scuola, tramite le “cronache” giornaliere della riforma Bottai mi indussero a scrivere, e mi aiutarono a vivere, perché su un quaderno esprimevo il mio stato d’animo in fondo alle scarpe, mentre il “pagellino” mensile in uso al Rosmini, lo certificava. A fronte di un ottimo risultato della Prima Media, mi ritrovai tre mesi dopo, in Seconda, completamente disastrato: “insufficiente” per tutte le materie da parte degli stessi insegnanti che mi avevano classificato “buono” tre mesi prima.

Il pagellino lo ricevetti proprio Mercoledì 18 Novembre, il giorno del primo bombardamento pesante di Torino. Questo fatto traumatico mi “salvò”, e quel pezzo di carta finì arrosto alla prima accensione della stufa a Sangano, senza che i Miei lo vedessero mai.

Il quaderno con le cronache giornaliere rimase nelle mani del prof Catalano che incontrai alla libreria Petrini nel ’45, dopo la fine della guerra. Col sorriso sulle labbra ammise che lo rileggeva ogni tanto, e lo riteneva ormai suo di diritto, perchè troppo bello come ricordo di scuola. Le mie cronache riguardavano quasi sempre la vita di classe e dei compagni. Su quelle pagine c’era anche la storia di Lei. Da quel momento in avanti ricostruii lo scritto, e ripresi le annotazioni senza snaturare la sostanza.

Tenevo “la cosa” in un quaderno con il titolo “3mp”, evidenza algebrica delle iniziali dei nostri nomi e cognomi: Lei MM, io MP. Era un quaderno dimensione partita doppia, a quadretti, quindi ero già stranamente d’accordo con i suggerimenti di Giuseppe Prezzolini che in quel tempo non sapevo nemmeno lontanamente chi fosse. Un quaderno dove più tardi nel dopoguerra aggiunsi anche tutta la mia vita rugbystica nella squadra del Cus Torino (foto). E poi Lei, la protagonista milanese-americana. Il nome non lo scrivo per diversi motivi, ma soprattutto perché non le piaceva il vezzeggiativo.

Il nostro primo incontro risale al 1938, quando avevamo otto anni. Non ricordo se il colpo di fulmine fu immediato, oppure se la scintilla fosse scoccata qualche tempo più tardi. Lei aveva un’aria che la faceva sembrare corrucciata, mentre invece era molto accattivante, perché nascondeva sempre un sorriso per me. Un’aria seria mantenuta negli anni, fin da piccolissima, quando guardandomi dritto negli occhi mi chiese perchè mai andassi sempre a giocare con i ragazzi Nolesi, anzichè con gli amici dei Bagni Anita. Non ricordo cosa le risposi, ma sono certo che per la prima volta fui folgorato da un’amica più “anziana” di me, nel senso che era nata nel Febbraio del mio stesso anno, 1930, quasi quattro mesi prima di me. Naturalmente avevo compreso che il non giocare con gli “amici” si risolveva nel fatto che non giocavo con Lei. E a otto anni, scrivo ora, una bambina ha dei diritti inalienabili. Da quel momento, in realtà, quando toccava a me fare il ladro a “guardie e ladri”, l’alienato ero io perchè Lei non lo accettava, e spariva senza preavviso. Non so perché fosse così ostinatamente contraria a quel ruolo: forse perché non riusciva a prendermi, ma è una battuta inutile. La verità era che quando Lei e il suo sorriso con smorfia corrucciata sparivano, io andavo in tilt, magari solo per un periodo di tempo in cui diventavo un ladro facilmente catturabile, e quindi poco credibile.

Rimasi folgorato, e in quegli anni trascorrevo gli inverni aspettando di ritrovarla a Noli l’estate successiva. All’epoca, il telefono era una cosa quasi impossibile tra città differenti: difficile chiamare, ma anche severamente proibito dai genitori per il costo.

“Lei” era nata e viveva a Milano, ed era figlia di madre americana. Milanese-americana, quindi abbastanza distante come abitudini, e fisicamente molto distante per gran parte dell’anno. Aveva capelli castano chiaro tendenti al biondo, tenuti lunghi e sciolti, insoliti a quell’epoca di trecce (che Lei aborriva). Li lavava tutti i giorni in una specie di rito “americano”, quindi uscire di sera a Noli, come facevano tutti i bambini al mare, diventava problematico. Ma forse il “devo lavarmi i capelli” era per nascondere il fatto che non aveva il permesso, e finivamo per vederci solo mezz’ora sotto casa sua.

Aveva una governante, forse un’educatrice, maggiore di noi di qualche anno, che in seguito capii essere sempre stata molto dalla mia parte. Lo scrivo senza iattanza: il gioco, o la passeggiata che piaceva a me, era sempre la cosa che la governante approvava, per la folta compagnia di amici che dominava, e rifiutava tutto il resto. Nella più banale delle ipotesi, avevamo gli stessi gusti anche per le cose stravaganti o pericolose, come percorrere tutto il sentiero di guardia sulle mura del Castello di Noli, a mezza altezza, con passaggi azzardati nei punti decrepiti e pericolosi, oppure come dare la scalata alla seconda finestra della torre dall’esterno del fabbricato. La governante, sempre lei, per quanti anni? Quasi una sorella maggiore.

La sua vera sorella, Paola, la rividi una sola volta a Milano nel 1957 (o ’58?), incontrandola casualmente in piazza Sant’Ambrogio. Avrei avuto domande importanti in punta di lingua su argomenti che mi hanno stordito per sempre, ma mi tenni tutto dentro. Finsi di non riconoscerla, e forse anche lei non mi riconobbe per davvero.

Dal ’38 al ’42, per un mese ogni estate, Lei e io eravamo sempre insieme, con l’impegnativa comunanza di incrociarci sulla “marina” senza uno specifico appuntamento, spesso alla mattina presto. Io, di ritorno dalla pesca notturna con Mario De Benedetti, Franco Rigatti, Eugenio u Barusciu, i ragazzi Nolesi al seguito di equipaggi professionali (ma a volte anche di ritorno dal bollentino o da un giro a vela sui gozzi), e terminava al mercato del pesce, vicino al cosiddetto “grattacielo” (foto), che ora, dopo il bombardamento e la ricostruzione con egual architettura e colori, si chiama Hotel Monique. Era l’unica casa di quattro piani, in fondo a Noli, nei pressi dei Bagni Vittoria. Quella era casa sua.

La cosa più intima tra noi era il gelato di cui disponevamo ogni pomeriggio insieme, parlando di scuola, di amici, di niente. Qualche volta prendendoci per mano, secondo le indicazioni della governante.

Io ridevo alle battute, Lei no. Non rideva quasi mai, ma sorrideva sempre con silenziosa partecipazione. Per un mese, cioè il tempo della mia permanenza al mare. Poi tutto perdeva colore, diventava buio e subentravano le cure. Sedobrol. «Che z’ses mai fol!» chiosava mio padre con poco rispetto delle mie pene. Acutil. Qualche volta anche olio di fegato di merluzzo, o il più blando e schifoso Adisole. Tutto inutile. Non era quella la cura, ma “gli altri” non sapevano.

Fino al bellissimo 1942. Mancava ancora un mese ai bombardamenti terroristici, ed eravamo entrambi reduci dalla promozione in Seconda Media. Ci univa il simbolo “3mp”, che io negli anni seguenti impressi su tutti i muri che trovavo, ma anche sulle intestazioni dei libri e quaderni di scuola. Poi nella mia immensa stupidità… . Anzi, peggio.

Peggio, perché non mi accorsi che stavano iniziando una serie di avvenimenti e accostamenti sorprendenti che si intromisero, complice la guerra, e si conclusero nel dopoguerra, senza che io fossi capace di cambiare il corso delle nostre vicende.

Incominciò per me una storia intima di cui si avvide solo mia sorella Liana, da qualche suo accenno scherzoso, ma non comprese quanto io fossi condizionato in tutti i rapporti, anche per l’intervento più o meno occasionale di altri, a cominciare dall’episodio del muretto, che avrebbe potuto diventare grave per Lei, e che diventò intimamente gravissimo, per me.

Era fine estate del ’42. Forse una Domenica. Forse il 6 Settembre. Un periodo di gite: la torre del Castello, i ruderi di San Michele, Capo Noli, l’Osservatorio. Non facevamo più bagni, se non sporadici. Eravamo seduti uno di fianco all’altra sul muretto che circondava i bagni Anita. Mi trovai esposto con Lei ai sorrisini degli ultimi coetanei ancora al mare, ma anche di adulti che sorridevano e non si fermavano per rispettare la nostra solitudine. I sorrisi, che io non sopportavo, li interpretavo ironici come forse non erano nelle intenzioni.

Le presi la mano per andare via: io già in piedi, Lei negativamente seduta. Forzai la posizione esattamente come Lei che, al contrario, oppose resistenza per riportarmi seduto. Vinsi io perchè ero già in piedi, e avevo una leva maggiore… e il bellissimo 1942 divenne un incubo.

Forse i suoi 12 anni femminili erano quelli di chi non voleva più solo giocare? Voleva parlare o salutarmi prima della partenza? Oppure dirmi che in Lei, donnina cresciuta, erano nate esigenze, stimoli, che io, invece, bamboccio per di più stupido, non avevo compreso.

La rilasciai di colpo, e me ne andai.

Mi recai in cabina per mettermi in costume. Poi, preso dal rimorso, tornai sui miei passi senza essermi cambiato, ma Lei non era più lì. Offeso, attraversai per andare a casa, ma accanto alla fontanella di acqua potabile vidi Lei e la governante, intenta a rappezzare le ginocchia sanguinanti. Cosa era successo? Una cosa gravissima se fosse accaduta sempre sul muretto, ma più avanti verso il mare: lasciata di colpo la mano, Lei arretrò violentemente, inciampando nel muretto che agì da sgambetto. Fece il salto mortale all’indietro al di là della balconata, fino a trovarsi con le ginocchia a terra, un metro più in basso. Questo l’accaduto che non vidi, riassunto dalla governante.

Il muretto (pallino rosso) è quello al piano terreno rispetto alla scritta “Bagni Anita”. La vista della cabina più alta (pallino verde) verso il mare mette in evidenza l’altezza che in quel punto sarebbe stata di circa tre metri, e Lei avrebbe rischiato l’osso del collo. Cadde, per fortuna, solo un metro più sotto, perché dove eravamo noi, il dislivello rappresentato dalla scarpata che divideva il viale alberato dalla spiaggia era di circa un metro di ghiaia.

Alla fontana, quella volta, Lei non sorrideva. Non piangeva. Mi guardava con uno sguardo pieno di stupore che non ho più dimenticato. Come non posso scordare l’atteggiamento quando mi parlava, ogni volta trafiggendomi con gli occhi. Non mi scusai, e nemmeno la salutai. Ascoltai la spiegazione della governante, e me ne andai via, stupidamente arrabbiato, come se la colpa fosse stata sua. Lei mi cancellò? Forse sì. Non lo saprò mai, perché dopo quel giorno non la vidi mai più.

Per qualche tempo pensai che non si facesse viva perché arrabbiata o dolorante. Quando infine vidi le sue persiane chiuse, capii che era partita, e feci cose che mi sconvolgono ancora oggi. La mia fu qualcosa di molto simile alla pazzia.

Andai alla stazione ferroviaria a un’ora precisa di un giorno preciso, senza un motivo meno preciso che non fosse quello di pensare di accompagnarla a quell’ora, a quel treno. Nei minuti di attesa, il pensiero mi sconvolgeva sempre di più. Per ogni persona (specialmente ragazza) che entrava e non si voltava alla sua sinistra per non guardarmi, era come se fosse veramente Lei, e per sempre. Oggi, 30 Aprile 2018, aggiungo: esatta previsione, ma pazza la soluzione.

Sul piazzale della stazione mi venne in mente il figlio del capo stazione, Giovanni detto Nino. “Passueta”, per gli amici. Chissà perché “Passueta”. Chissà perché pensai a lui. Attesi di vedere il treno ripartire, sbuffando, in direzione Savona, e a quel punto non capii più niente. Mi misi a correre parallelamente alla strada ferrata, sfrenatamente. Persi di vista il treno. Attraversai tutta Noli. Forse pensavo di vincere la corsa? Quella che si svolge tutti gli anni, sant’Eugenio, sullo stesso percorso, per vederlo ancora, il treno, là in alto, lentamente, sparire sotto strada Defferrari, dal sito dove giocavo a calcio con gli amici Nolesi. Forse ora fa ridere, ma lì mi fermai, oppure entrai in catalessi.

Per molti anni, o forse per sempre, mi ritrovai là, ancora in quel piccolo piazzale dove non tornai mai più. Non so se la piazza ci sia ancora, ma io sono ancora là, mummificato. Monumento della disperazione. Fuori controllo di testa, di gambe, di stomaco. Rabbioso e fuori di me.

Nei mesi e anni seguenti, mia Madre si rese conto che in me c’era qualcosa che non girava nel verso giusto, e finii, ancora in tempo di guerra, per dover andare in cura dalla famosa pedagoga psicologa infantile Angiola Massucco Costa (che lavorava nell’ambito di Maria Montessori), nonostante il disagio dei trasferimenti Sangano Torino in treno, con discesa e risalita dell’alveo del Sangone a Beinasco bombardata. Fu un susseguirsi di medici e insegnanti professionisti, paramedici amici dei miei genitori, ma non ci furono risultati apparenti. La mia sensazione è quella d’aver fatto tutto da me, soprattutto i danni, ma anche alcune cose buone.

Non dissi mai a nessuno da dove nascesse il male oscuro che cercavano. Soffrivo come se fosse una cosa ridicola e anche menomante agli occhi degli adulti parlare di Lei, perché oltre ad essere stato catturato a otto anni da una bimba mia coetanea, non sopportavo di pensarla dissacrata come immaginavo che sarebbe accaduto.

Dopo una battuta scherzosa di mia sorella Liana «Sei rimasto a Noli ante guerra», compresi che qualcuno in casa aveva capito e aveva parlato. Così, quasi smascherato, non dissi nulla lo stesso. Concludo: le “cose” tra bambini non devono essere deviate da interventi di adulti, educatori o pseudo tali. Vanno lasciate procedere secondo l’indole dei protagonisti e l’importanza che assumono, per finire come ogni altra cosa dovrebbe, di vita o morte naturale. Una persona, un muro, un trasloco o una guerra che si interpongano sono deleteri.

Negli anni di guerra, credo senza esagerazioni di non avere passato nemmeno un giorno senza pensare a Lei. Molto più tempo di quanto potrei credere io stesso, se non fossi sicuro di esserne il protagonista. Assolutamente non rendendomi conto che c’erano cose più importanti. Cosa aveva Lei di così importante da farmi mancare il fiato quando la sognavo arrivare sempre seria, l’andatura un po’ dinoccolata, poco bambina e molto donna? Una sola cosa che nel seguito della mia vita contò incredibilmente su tutte: ero profondamente innamorato, e non sapevo cosa significasse.

Luglio 1945: la guerra era finita. Mio fratello Paolo era a casa dal 24 Aprile. Poi la polizia del Popolo alle 4 del mattino, i partigiani per la sua partecipazione alla Repubblica Sociale, il libretto personale della Monterosa. Il 30 Giugno, mio fratello Franco diede notizie di sè da Norimberga; l’ultima lettera l’avevamo ricevuta a Gennaio da Rokitno in Polonia, rinchiuso in un campo di lavoro tedesco. Eravamo tutti vivi, e io, quindicenne, avevo un pensiero fisso. A Noli.

Disponevo di una bicicletta che avevo costruito verso la fine della guerra pensando a Lei. Partii da Torino Sabato 30 Giugno. A Ceva trovai il ponte distrutto. Aspettai il Caronte, ma ero in ritardo per l’incontro al “grattacielo”. Attraversai il Tanaro a piedi con la bici e le scarpe in spalla. La salita di Montezemolo, discesa, e di nuovo salita al colle. Via vai al cimitero di guerra: capii che alcuni soldati fascisti erano stati uccisi dai partigiani. Avrei voluto fermarmi, ma non potevo: scoppiavo d’impazienza. Scesi a rompicollo. Cadibona, strade rovinate, ghiaia al posto dell’asfalto. Savona, via Aurelia, Zinola. Le scritte “Riri” sui muri. Perché “Riri”? Cosa c’entra Riri? Bergeggi sempre lì, anche l’isola. Spotorno, Premuda e gli Spotornesi concorrenti nelle regate a remi: noi sempre vincenti, io timoniere. Coi remi dei coetanei marinai pescatori Nolesi ci voleva poco: non conoscevano motori in barca, e avevano muscoli adatti. A Torino battevo chiunque a lotta, perfino Bardanzellu; a Noli mi guardavo bene di fare la lotta con Eugenio, e tantomeno con Munin. Villa Ada, lo scoglio del prete e le teste di acciuga. Finalmente Noli con i suoi odori. Eh già: le acciughe passavano a Giugno. Erano circa le due, l’ora del gelato, ma Lei non c’era. Procedetti verso il fondo del paese. Mi dissi che questa volta sarei salito a casa, e avrei vinto la soggezione che mi incuteva suo papá. «Non aspetterò in strada. Salirò le rampe di scale del “grattacielo” di 4 piani». Ma là in fondo non c’era niente. Il panorama era cambiato. Forse le palme erano cresciute? No no, mancava proprio qualcosa: il grattacielo non c’era più! Solo ruderi. Un bimotore americano aveva centrato l’unica casa di Noli. Nessun morto, per fortuna, e i milanesi non erano lì.

Mi venne una grande fame, come se la sera precedente non avessi mangiato, o forse perché quel giorno avevo pedalato per 150 chilometri. Piansi. Non so, piansi davvero? Non credo. Sentivo solo un enorme vuoto nello stomaco.

Negli anni seguenti ebbi molte storie, tutte senza futuro. Piera, intelligente e bella, ma la lasciai subito. Donatella, gambe corte, abbandonata dopo ritorni di fiamma. Poi Annamaria. Tina, ma di lei non ricordo nulla, tranne che aveva 17 anni. Con Gemma abbandonai il campo a Betto che smaniava. Poi Graziana. Selene l’ho lasciata perché sentivo che Lei mi chiamava, ma forse sognavo. Bianca mi respinse. Poi Mariuccia di Torino, ma la sua Mamma era veramente troppo brutta. Subito dopo, un’altra Mariuccia di Milano. Elsa la cercai io, ma per fortuna non ci cascò. Poi Caterina. Luisa profumava di borotalco, Elena… Tutte degnissime, quasi tutte lasciate nel giro di poco.

A un certo punto pensavo che non sarei mai stato in grado di reggere un rapporto più a lungo di un mese, e aspettavo sempre che finisse in fretta. Nessuna si avvicinò neanche lontanamente alla “Lei” mia coetanea che mi aveva catturato e tenuto in ostaggio tra gli 8 e i 12 anni. E’ una storia incredibile: come faccio a raccontarla? Chi ci crede?

Nel 1957 la cercai, e trovai il suo indirizzo di via del Caravaggio a Milano. La portinaia non mi permise di salire e digitò un numero su uno strano telefono collegato tra portineria e alloggio: non avevo mai visto un citofono. Qualcuno scese. Era una donna più o meno della mia età. Sorrise e mi salutò: «Ciao Mario!». Ma chi era? Perché mi conosceva? Non l’avevo mai vista. Ero imbarazzato. Era la governante? Se no, chi? Forse avevo dato il mio nome alla portinaia? Non credo. Ma poi sentii una cosa insensata: «Lei si è sposata». Va beh, era scontato. «Ma quando?» … «Due giorni fa» … «Ho capito bene?» … «Due giorni fa, sì». Due giorni fa si è sposata, ma che differenza fa se è due giorni o tre anni fa? Si è trasferita a Brescia. Perché Brescia. Ma che differenza fa? Improvvisamente mi venne di nuovo fame, solo fame. Non volli più sapere altro. Scappai e forse compresi per la prima volta che il convitato di pietra ero io.

Il 25 Luglio 1959 giunse la seconda folgorazione milanese che mi aprì di nuovo al mondo, e mi cambiò la vita. Nessuno capì niente della mia fretta, a partire da mia Madre a cui mancarono le gambe quando le diedi la notizia. Laura e io (foto 2012) ci sposammo il 15 Febbraio 1960, un Lunedì. San Valentino? No. Non sapevo nemmeno che esistesse San Valentino. Sono cose di cui non ho mai ho mai parlato con nessuno, forse nemmeno con me stesso.

 

Nel 2018 mio Padre ha ancora cercato la sua amica, non so quanto lucidamente, rivelando il suo nome, e provando accostamenti diversi su Gmail.

 

From: mpogliano498@gmail.com
To: mmartinengo@gmail.com
Date: Fri, 15 Jun 2018 08:40:18 +0200
Subject: provo
Noli, tanti anni fa. ciao

 

From: mpogliano498@gmail.com
To: m.martinengo@gmail.com
Date: Sat, 16 Jun 2018 08:09:28 +0200
Subject: provo
Noli, Anita, tanti anni fa. ciao

 

From: mpogliano498@gmail.com
To: marilu.martinengo@gmail.com
Date: Mon, 18 Jun 2018 09:58:31 +0200
Subject: provo
Bagni Anita. Noli.Tanti anni fa Rispondi p.f
Mario

 

 

 

Protagonisti

Mario Pogliano (foto 1973), nato a Torino il 29 Maggio 1930, morto il 26 Luglio 2023.

Marilù Martinengo (Marialuisa?), nata a Milano nel Febbraio 1930. Figlia di Madre Americana, aveva una sorella, Paola, e un fratello, Mario. Si sposò nel 1957, e si trasferì a Brescia.

 

 

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