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13Dic 24
Le parole siano libere di pascolare fuori dai recinti
Sul Corriere del 29 Novembre, Liliana Segre sostiene la necessità di limitare l’uso della parola “genocidio” in base alle caratteristiche degli eventi che l’hanno coniata e forgiata. Il massacro a Gaza, scrive la Senatrice a vita, NON ha elementi riconducibili ai due “caratteri tipici” dei genocidi precedenti, quindi in quella circostanza l’uso della parola sarebbe da evitare.
Secondo la Signora Segre, i genocidi subiti dagli Armeni, Ucraini, Ebrei, Rom, Sinti, Cambogiani e Tutsi rientrano in due caratteristiche:
1. pianificazione della eliminazione completa (anche solo nelle intenzioni) dell’etnia o del gruppo sociale oggetto della campagna genocidaria.
2. l’assenza di un rapporto funzionale con una guerra.
Nel punto 2, il rapporto funzionale tra le due guerre mondiali e i rispettivi genocidi (Armeni + Sinti Rom Ebrei) esiste eccome, ma in senso contrario al modello della Senatrice: non genocidio in funzione della guerra, ma guerra momento storico indispensabile dove nascondere la vergogna di un genocidio. E’ esattamente quello che sta accadendo a Gaza.
Nel punto 1, i Palestinesi di Gaza sono un “gruppo sociale” a sè. Quella Striscia di terra, infatti, ha connotati unici, chiusa com’è tra Israele, un angolo di Egitto, e il mare. I “diversamente Semiti” che la abitano formano una categoria a parte, anche rispetto ai Palestinesi di Cisgiordania (spostati alla bisogna), e quelli di Israele (contingentati nel 1948). Spiace rimarcare che quei connotati siano dati dalla geografia, ma anche dalla natura identitaria dello stato ebraico: in qualsiasi stato moderno occidentale, “identitario” sarebbe sinonimo di “razzista”.
Per rientrare nel modello di Liliana Segre, occorre dunque distinguere il genocidio dei Gaziani dalla “ramazza” etnica riservata ai più fortunati fratelli in Cisgiordania, ai quali viene semplicemente chiesto di farsi più in là.
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