Brexit: l’elite nega la democrazia. Ma così ne sarà travolta
È battaglia a Londra sul dossier della Brexit. La data fissata è quella del 29 marzo 2019, quando il Regno Unito dovrà concludere ufficialmente il negoziato per lasciare l’Unione Europea. Lo scontro in atto nel Governo dei Tories di Theresa May, con le dimissioni di David Davis, ministro in carica proprio per la Brexit e di Boris Johnson, ministro degli Esteri, è il segnale tangibile di una guerra interna al Partito Conservatore che vede opposti, da un lato, i moderati, tra cui la stessa May, fautori di un’uscita soft e, dall’altro, gli “hard brexiters“, come appunto Davis e Johnson, che propendono per un taglio netto e totale dei legami con Bruxelles.
Al momento ha vinto la prima linea. La proposta ipotizzata da Theresa May (che sarà presentata domani) prevede infatti il mantenimento della libera circolazione dei beni, regole comuni sul settore agroalimentare e un accordo per evitare controlli in ingresso per i cittadini comunitari. Una misura, quest’ultima, che nasce anche per evitare frizioni con l’Ulster, dato che la Repubblica d’Irlanda è Paese membro dell’UE e un irrigidimento dei confini con la parte settentrionale dell’isola, appartenente al Regno Unito, potrebbe risvegliare antichi dissapori.
La linea soft tuttavia è sostenuta anche dalla sinistra liberal dei laburisti e, ovviamente, dal mondo della finanza globalista, che proprio a Londra ha una delle proprie centrali più importanti, la City. Il quartiere degli affari gode addirittura di un’entità amministrativa a parte nel panorama britannico, la City of London Corporation, per il cui rinnovo possono votare anche i delegati delle realtà economiche attive sul suo territorio. Un retaggio dell’epoca medioevale, che però lascia intendere quanto sia influente e prestigioso il mondo finanziario per quella che, dopo Venezia (fino al XVI secolo) e Anversa (fino al XVIII) e prima di New York, fu la terza capitale storica dell'”economia-mondo”.
Dal 23 giugno del 2016, quando il 51,9% dei cittadini britannici votò per lasciare l’Unione Europea, questa variegata fetta di elite composta da moderati conservatori, laburisti e il mondo della finanza globalista ha sempre contestato l’esito del voto popolare, tacciando gli elettori, con la complicità degli esponenti dell’establishment del resto d’Europa (molti lo ricorderanno), addirittura di ignoranza.
Per il momento la May salva il suo Governo, sostituendo Davis e Johnson con ministri più vicini al suo sentire. Ma potrebbe non bastare. Il leader del partito nazionalista Ukip, Nigel Farage, ammirato da Donald Trump, che si era ritirato dalla vita politica in seguito alla vittoria nel referendum sull’Unione, si è già dichiarato pronto a tornare in campo, se le aspettative degli inglesi venissero tradite. E i laburisti guidati da quello che molti ritengono un euroscettico mascherato, il populista di sinistra Jeremy Corbyn, sono già avanti nei sondaggi, mentre qualcuno invoca un nuovo referendum che però, se confermasse l’esito precedente, avrebbe conseguenze politiche disastrose per i “remainers“.
Chi scelse la Brexit lo fece per tutelare i posti di lavoro dal continuo arrivo di immigrati dagli altri Paesi europei impoveriti dall’austerità di Bruxelles e per salvaguardare l’economia reale nazionale. Perché era su questi temi che si basava la campagna a favore del “leave“. Quello della Brexit fu in sostanza un (altro) voto contro la globalizzazione. Il tentativo di ribaltare, a due anni di distanza, l’esito di quel voto, è la dimostrazione della scarsa lungimiranza delle elites. Le stesse che, in Italia, celebrarono la scelta del Presidente della Repubblica Mattarella di vietare l’accesso al Ministero dell’Economia al professore euroscettico Paolo Savona, generando una pericolosa crisi istituzionale.
È un’ulteriore riprova della mancanza di contatto con la realtà da parte di certi centri di potere, che, nel tentativo di salvare la costruzione europea, anziché far tesoro delle istanze provenienti dal voto popolare, quel voto che chiede in maniera sempre più forte un ritorno alla sovranità nazionale e (soprattutto) a un maggior controllo della politica sull’economia, lo negano. E negandolo, negano la democrazia e la storia, rafforzando così quei sentimenti scissionisti che l’Europa, anziché salvarla, sono destinati a farla implodere. Per la gioia di chi, dall’altro lato dell’Atlantico, non aspetta altro.