1549134370-lapresse-20190202200303-28347921Che cosa vogliono realmente gli Stati Uniti dal Venezuela? Più democrazia? Ovviamente, come l’esperienza recente dovrebbe aver insegnato, il problema non è certamente questo. E non lo è mai stato. Bisogna infatti iniziare col dire che il Venezuela è il Paese più ricco al mondo in termini di riserve petrolifere. Non il secondo, non il terzo, ma il primo Stato, davanti a colossali produttori come Arabia Saudita, Kuwait e via discorrendo.

Il punto è che il Venezuela non è in grado, da un punto di vista tecnologico, di sfruttare le enormi ricchezze che racchiude nel sottosuolo. La crisi economica nel Paese sudamericano è anche, in parte, da attribuirsi a questo problema, oltre che alla mancata diversificazione dell’economia, visto che dal petrolio, gestito attraverso la compagnia di Stato PDVSA (Petroleos de Venezuela SA) deriva il 97% delle entrate statali, quindi praticamente l’intero bilancio. Questo succede dal 1918, quando le prime riserve petrolifere furono scovate nella baia di Maracaibo, tramutando quella che era un’economia sostanzialmente agraria in un’economia basata sul petrolio. E le possibilità sono tutt’ora immense: la fascia dell’Orinoco, 54mila chilometri quadrati attraversati dall’omonimo fiume, potrebbe addirittura contenere fino a 1300 miliardi di barili di petrolio. Si tratterebbe di una quantità sostanzialmente pari a tutte le riserve petrolifere mondiali (lo dice l’atlante geopolitico Treccani, non il Governo di Maduro..).

Ebbene, in un’intervista del 28 gennaio 2019 su Fox News, il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti John Bolton ha espresso chiaramente e senza troppi giri di parole quale sia il primario interesse statunitense, con le seguenti affermazioni: “Farà una grande differenza per gli Stati Uniti, economicamente parlando, se le compagnie americane potessere investire e produrre idrocarburi in Venezuela“. Più chiaro di così…

D’altronde il Venezuela è una spina nel fianco per gli Stati Uniti e per la geopolitica americana fin dal 1998, quando, con l’elezione del socialista bolivariano Hugo Chavez alla presidenza, il Paese uscì di fatto dalla sfera d’influenza statunitense e dall’ordine mondiale liberale angloamericano. Appartenenza che, peraltro, non aveva troppo giovato al benessere della popolazione venezuelana. Nel 1975, infatti, il Governo di Caracas aveva incaricato il professore canadese Michel Chossudovsky di stilare un report sulla situazione della povertà nel Paese. Ne emerse un quadro sconcertante. Più del 70% della popolazione venezuelana – ha ricordato l’accademico – non soddisfaceva il fabbisogno calorico e proteico minimo, mentre circa il 45% soffriva di denutrizione estrema.Più della metà dei bambini venezuelani soffriva di un certo grado di malnutrizione. La mortalità infantile era estremamente alta. Il 23% della popolazione venezuelana era analfabeta. Il tasso di analfabetismo funzionale era dell’ordine del 42%. Un bambino su quattro era totalmente emarginato dal sistema scolastico (nemmeno iscritto al primo grado della scuola primaria). Più della metà dei bambini in età scolare non era mai entrata al liceo. La maggioranza della popolazione aveva avuto poco o nessun accesso ai servizi di assistenza sanitaria. La metà della popolazione urbana non aveva avuto accesso a un adeguato sistema di acqua corrente all’interno della propria casa. La disoccupazione era dilagante. Oltre il 30% della forza lavoro totale era disoccupato o sottoccupato, mentre il 67% delle persone occupate in attività non agricole riceveva uno stipendio che non consentiva loro di soddisfare i bisogni umani di base, come cibo, salute o vestiario. Tre quarti della forza lavoro stavano ricevendo introiti inferiori al salario minimo di sussistenza“.

Dovrei menzionare – ha aggiunto il professore, oggi uno dei maggiori pensatori anti-imperialisti al mondo, in un’intervista radiofonica al giornalista Bonnie Faulkner – che molti dei nostri dati erano basati sugli anni ’70, ma gli anni ’80 erano molto peggiori, perché allora nel 1989 avvenne quello che si chiamava El Caracazo, un processo di collasso economico e sociale. È stato istigato dal Fondo Monerario Internazionale. Ha portato all’iperinflazione, quindi è stata una sorta di classico intervento neo-liberista con una forte ‘terapia d’urto’. È successo nel 1989“. Si trattava, insomma, delle solite politiche di austerità. Dunque, se oggi il Venezuela è in crisi, all’epoca, quando, secondo l’odierno storytelling statunitense, si trovava ancora nel club dei “Paesi liberi”, la situazione era devastante. Inutile sottolineare che buona parte delle colpe fosse nella mancata redistribuzione degli utili dell’oro nero.

Cosa è successo in seguito? Con l’avvento di Hugo Chavez alla presidenza, nel 1998, le riforme socialiste introdotte dal leader bolivariano hanno, pur in quadro di difficoltà e sottosviluppo e pur tra fenomeni eclatanti di corruzione e inefficienza, ridotto la povertà in maniera sostanziale, redistribuendo quella ricchezza che, in precedenza, era concentrata in pochissime mani. Basti pensare che la povertà estrema, nel Paese, si aggirava alla fine del 2018 intorno a un tasso del 4,4%, come ha recentemente spiegato all’ONU il vicepresidente con delega alla Pianificazione, Ricardo Menéndez, mentre prima della presidenza Chavez viaggiava sul 12%. Inoltre il coefficiente di Gini, indice che misura il livello di disuguaglianza nei Paesi e che va da un minimo di zero a un massimo di uno, era pari, sempre a fine 2018, a 0,38, mentre prima della rivoluzione viaggiava sullo 0,49. Non solo.Tra il 1999 e il 2013, il tasso di disoccupazione del Venezuela si dimezza, il reddito pro capite raddoppia e calano tutti gli indicatori negativi, incluso quello sulla mortalità infantile.

Chavez fu sempre malvisto dagli Stati Uniti, sfuggendo anche a un tentativo di colpo di Stato, nel 2002 (orchestrato dal diplomatico USA Elliot Abrams, appena nominato inviato statunitense ufficiale per la crisi venezuelana…). Non riuscì però a sfuggire al tumore, che lo portò alla morte nel 2013. L’erede, Nicolas Maduro, non si è dimostrato all’altezza della sfida quanto il predecessore, non essendo stato in grado di far compiere al Paese bolivariano il passo successivo: quello, appunto, della diversificazione dell’economia. A corollare un nuovo periodo di difficoltà scatenato dall’improvviso deprezzamento, dovuto alla non certo disinteressata speculazione sui mercati azionari, del bolivar, la moneta nazionale, che è stata inghiottita da una spirale di inflazione a tre zeri, le sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dalla presidenza Trump nel 2017. Il documento ha impedito ai cittadini e alle banche statunitensi di comprare e vendere nuove obbligazioni emesse dal governo venezuelano e dalla compagnia petrolifera statale PDVSA. Un colpo durissimo per un’economia interamente basata sull’oro nero (e che inoltre è il quarto esportatore di petrolio sul mercato americano). Eppure, sempre nel 2017, curiosità, la banca d’affari americana Goldman Sachs acquistò circa 2,8 miliardi di dollari (a 31 centesimi di dollaro l’una) di obbligazioni emesse da PDVSA nel 2014, secondo il Wall Street Journal. “Queste obbligazioni raddoppiano di valore se Maduro se ne va“, disse in proposito a Forbes Jan Dehn, capo della ricerca presso il Gruppo Ashmore ed esperto di finanza internazionale…

Per rispondere all’attacco economico, il presidente Maduro varò, lanciandola a novembre 2018, una criptomoneta con cui vendere il petrolio venezuelano e bypassare le sanzioni, il petro-coin. Una scelta, quella di vendere il petrolio in riserve diverse dal dollaro, che in passato aveva, per usare un eufemismo, portato “sfortuna” a personalità quali Saddam Hussein o Mu’ammar Gheddafi. Contemporaneamente Maduro intratteneva rapporti con la Turchia (sempre per bypassare le sanzioni attraverso l’utilizzo delle riserve auree nazionali), mentre arrivavano a Caracas (dicembre 2018) i bombardieri russi Tupolev Tu 160 per esercitazioni militari congiunte.

In quel preciso istante ha fatto la sua comparsa sulla scena Juan Guaido: 35enne, era fino a pochi mesi prima sostanzialmente uno sconosciuto. Addirittura, secondo un sondaggio, sconosciuto all’81% della stessa popolazione venezuelana. Peraltro, Guaido non era nemmeno un membro di alto rango all’interno del suo stesso partito, il movimento socialdemocratico Volontà popolare. Eppure, all’inizio di gennaio, è stato scelto come presidente dell’Assemblea nazionale, il parlamento unicamerale del Venezuela, in mano alle opposizioni. Inoltre, come scrive Daniele Perra su Eurasia, “già nel febbraio dell’anno passato, l’ammiraglio Kurt W. Tidd, Comandante in capo dello United States Southern Command, propose un piano dall’emblematico nome in codice Plan to overthrow the Venezuelan Dictatorship – Masterstroke. In esso, oltre alle dichiarazioni di rito sulla necessità di rovesciare una dittatura sinistrorsa che infetta l’intero continente sudamericano e sull’efficacia che una simile azione potrebbe avere nel procacciare consensi interni ed internazionali all’amministrazione Trump, veniva presentata nel dettaglio la strategia da utilizzare per incrementare fino ad un livello critico l’instabilità nel Paese caraibico. Così l’ammiraglio Tidd sottolineava l’esigenza di incoraggiare il malcontento popolare attraverso la scarsità dei beni di prima necessità (in primo luogo cibo e medicine) e di intensificare la denuncia del governo Maduro come illegittimo, criminale e usurpatore attraverso un sapiente utilizzo dei canali di propaganda“. Guarda caso è quello che è poi effettivamente accaduto…

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