“Vietato morire” è una canzone che, da qualche anno a questa fa parte, viene spesso riprodotta dalle principali stazioni radiofoniche italiane. Il brano, peraltro molto gradevole, parla di tutt’altro, ma il suo titolo potrebbe forse adattarsi anche al contesto della società occidentale contemporanea. Dove, a differenza di quanto avveniva in altre epoche e in altri frangenti storici, la “nera signora” è totalmente scomparsa dal dibattito. Quasi come fosse stata bandita, per l’appunto. Ne abbiamo avuto riprova durante la pandemia da coronavirus, quando, tra restrizioni assurde e sovente illogiche che hanno stuprato oltre il limite della decenza sacrosante libertà individuali, misure volte a preservare a ogni costo la mera esistenza fisica di ogni singolo cittadino, si è avuta la consapevolezza di un vero e proprio “divieto della morte”.

Eppure, come scriveva il poeta messicano Octavio Paz, «le sole grandi civiltà sono quelle che riconciliano la vita con la morte. Bisogna che l’idea della morte ritorni nel cuore della vita». Proprio su questo tema, così scomodo nel tempo del progresso, del consumo e dell’hybris transumanista, rifletteva, in un saggio pubblicato da Rusconi nel 1980, lo scrittore e giornalista romano Fausto Gianfranceschi, scomparso nel 2012. Autore poliedrico (capace di spaziare dalla narrativa alla saggistica), figura intellettuale della destra militante (dovette patire anche il carcere per le proprie idee), narratore sanguigno, nel suo trascinante saggio “Svelare la morte”, oggi riproposto e ripubblicato (con prefazione di Marcello Veneziani) da quell’infaticabile fucina di cultura non conforme che è Cinabro Edizioni, studia proprio il senso della morte e il suo tabù. Perché la morte, intesa come fondamento della ricerca di un limite naturale (quel limite oggi così difficile da accettare), è in fondo compimento della vita e dell’esperienza terrena. Accettarla significa, inevitabilmente, “addomesticarla”. Viceversa, negarla o disconoscerla porta, per contro, a renderla selvaggia, aprendo così le porte su uno scenario di disordinata violenza.

“Svelare la morte”, allora, è (a dispetto del titolo e, in parte, del contenuto) una riflessione soprattutto sulla vita. Che, purtroppo o per fortuna, ha (per tutti noi) sempre una fine.

 

 

 

 

 

 

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