Evo Morales e la Bolivia: il socialismo sudamericano sotto attacco
Cosa sta accadendo in Bolivia? Evo Morales, il presidente fresco di dimissioni, era per il Paese andino una vera icona. Ex cocalero (operaio coltivatore di coca) ed ex sindacalista, capo di Stato dal 2006, il primo indigeno ad ascendere al seggio presidenziale, Morales è uno degli uomini simbolo del socialismo latinoamericano.
Inviso agli statunitensi fin dalla prima candidatura, quella del 2002, durante i suoi tre mandati ha attuato politiche socio-economiche che sono andate in senso contrario rispetto alla vulgata liberista, con, tra le altre cose, la nazionalizzazione delle risorse di gas naturale e la realizzazione di una grande massa di opere pubbliche. Politiche keynesiane che hanno contribuito, negli anni, a ridurre sensibilmente la povertà: il numero di cittadini costretti a vivere con una cifra giornaliera inferiore ai 5,50 dollari si è ridotto dal 52% del 2005 al 24% del 2017. Il PIL pro capite reale della Bolivia è cresciuto mediamente del 3,2% all’anno durante i tre mandati di Morales. Le scelte dei suoi governi hanno così contribuito a ad aumentare il potere d’acquisto dei boliviani con ritmi di crescita di tutto rispetto e, nonostante una flessione nell’ultimo quinquennio, il presidente godeva ancora di un consenso importante.
Ma allora perché dimettersi? La crisi politica ha origine con la vittoria, la quarta consecutiva, del presidente nelle ultime elezioni presidenziali dello scorso 20 ottobre, quando Morales ha evitato il ballottaggio contro il candidato liberale Carlos Mesa con il 47% delle preferenze al primo turno. Una competizione elettorale cui Morales ha potuto partecipare dopo un via libera alla candidatura arrivato nonostante il referendum per consentirgli un quarto mandato fosse stato in precedenza bocciato dagli elettori.
L’opposizione ha così subito accusato il presidente di brogli, accusa supportata da un rapporto dell’OAS – Organizzazione degli Stati Americani, importante forum multilaterale con sede a Washington. In prima fila si sono mossi i comitati civici guidati da Luis Fernando Camacho, un oppositore e presidente del ‘Comité pro Santa Cruz’, cresciuto in una delle zone più ricche della Bolivia, le cui proteste hanno contribuito a dare vita a tumulti particolarmente violenti, che hanno alla fine generato almeno tre morti e quasi 400 feriti.
Dopo aver annunciato nuove elezioni, Morales ha dovuto alla fine gettare la spugna, sotto la spinta, dell’ammutinamento di numerosi poliziotti e, soprattutto, delle pressioni dell’esercito, che lo ha invitato a lasciare “per il bene della nostra Bolivia”, per voce del comandante in capo, il generale Williams Kaliman. Prima di Morales si erano dimessi anche il presidente della Camera, Victor Borda, e il ministro delle Miniere, Cesar Navarro. Le loro abitazioni erano appena state attaccate e date alle fiamme, come quella di una sorella dello stesso Morales e di due governatori locali.
Dopo aver spiegato di voler risiedere “nella zona tropicale di Cochabamba”, dove iniziò la sua carriera politica, negando di voler fuggire, Morales ha detto di non sentirsi colpevole di nulla. “Il mio peccato – ha spiegato – è essere indigeno, dirigente sindacale, ‘cocalero’(…) Essere indigeno, antimperialista e di sinistra è il nostro peccato. Se capiterà qualcosa a me e a al vicepresidente pure dimissionario Alvaro Garcia Linera, sarà colpa di Mesa e Luis Ferdinando Camacho”.
Così, se il presidente venezuelano Nicolas Maduro, anche lui da qualche tempo alle prese con un tentativo di colpo di Stato, ha dichiarato che “Evo Morales è in pericolo di vita”, dopo il tentato golpe in Venezuela con Juan Guaido e quello, a questo punto riuscito, in Bolivia, dopo la ratifica della carcerazione preventiva in Ecuador per l’ex presidente Rafael Correa, è certamente e decisamente curioso l’allineamento temporale di situazioni che hanno portato a un’inversione totale rispetto a quella “ondata socialista” che, nel ventennio precedente, aveva portato al potere nei principali stati latinoamericani leader come Cristina Kirchner in Argentina, Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile, Manuel Zelaya in Honduras, Daniel Ortega in Nicaragua, Fernando Lugo in Paraguay e Hugo Chávez in Venezuela.
Leader che, in un modo o nell’altro e nonostante le differenze, avevano come punto in comune l’opposizione ai dogmi economici liberisti e austeristi (di recente contestati da un’ondata di proteste anche in Cile) cari, tra gli altri, a istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale. Posizioni che, nel caso di Morales, sono state probabilmente pagate a caro prezzo.