Prospettive geopolitiche per comprendere una materia complessa
Si tratta di un libro di poco più di ottanta pagine. Eppure “Prospettive geopolitiche”, opera di Claudio Mutti, direttore della rivista di studi geopolitici Eurasia, edito da Effepi, è uno di quei testi da possedere assolutamente. Da possedere ma, naturalmente, anche e soprattutto da leggere. Condensata in poche pagine di saggio è infatti una spiegazione di cosa sia realmente la geopolitica, di cui tanto oggi si parla (e straparla) e quali siano gli orizzonti del mondo contemporaneo, attraversato da una crescente complessità connessa, in parte, con lo stagliarsi all’orizzonte di una prospettiva multipolare. Un testo per esperti ma anche per neofiti della materia, utilissimo per iniziare a comprendere il tema così come per districarsi nelle tante informazioni che i media generalisti propinano sull’argomento.
“Prescindendo dall’uso e dall’abuso che da un quarto di secolo viene fatto del termine ‘geopolitica’ – spiega Mutti – spesso applicato sic et simpliciter alle relazioni internazionali, alla politica estera, alla geostrategia e prendendo invece in considerazione le definizioni fornite dagli studiosi, possiamo definire la geopolitica come lo studio delle relazioni internazionali in una prospettiva spaziale che consideri l’influenza esercitata dal fattore geografico sulla politica estera degli Stati. La nascita di questa disciplina può essere collocata tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quando, col dirompente ingresso della nascente potenza statunitense sulla scena mondiale, fu avvertita la necessità di studiare le concrete possibilità di un nuovo ‘nomos della terra’, dal momento che gli orizzonti si erano allargati rispetto alla prospettiva europea. Per lo più vengono indicati, come ‘padri fondatori’ della geopolitica, il geografo ed etnologo tedesco Friedrich Ratzel (1844-1904) e il geografo, politologo e sociologo svedese Rudolf Kjellén (1864-1922), al quale viene attribuito il primo impiego del termine ‘geopolitica’. Seguirono l’inglese Halford John Mackinder (1861-1947) e il tedesco Karl Haushofer (1869-1946), i quali diedero risalto al dualismo terra-mare, focalizzando la loro attenzione sul conflitto che contrappone un centro di potere continentale ed uno talassocratico”.
Ma, nel suo saggio, il professor Mutti spiega anche la relazione tra la geopolitica e una visione del mondo religiosa. Che non è assolutamente campato per aria.
“Il concetto di genius loci – prosegue l’autore – residuo fossile di un aspetto dell’antica religione romana che un commentatore dell’Eneide riassumeva con la frase ‘Nullus locus sine genio’, ha a che fare con quella che René Guénon chiamava ‘geografia sacra’. In uno dei saggi contenuti in Prospettive geopolitiche mi sono posto la questione se non sia possibile applicare alla geopolitica l’affermazione di Carl Schmitt secondo cui “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”, affermazione che riecheggia questa stupefacente frase di Proudhon: ‘Il est surprenant qu’au fond de notre politique nous trouvions toujours la théologie’. Ora, la geopolitica non è né ‘geografia sacra’, né teologia, né tanto meno metafisica; quello che a mio parere si può dire è che, come la geografia ha fornito tutta una serie di elementi al simbolismo tradizionale, così alcune caratteristiche nozioni geopolitiche hanno custodito la traccia evidente di una visione religiosa del mondo”.
Un altro tema affrontato, di grande attualità, è quello delle migrazioni, croce e delizia del dibattito politico.
“Il fenomeno migratorio – argomenta Mutti – è così vario, multiforme, complesso ed esteso, che negli ultimi anni ho avvertito la necessità di dedicare ad esso, in qualità di direttore, tre o quattro numeri della rivista di studi geopolitici ‘Eurasia’. Nelle pagine di Prospettive geopolitiche in cui viene affrontato questo argomento, mi sono limitato ad abbozzare una tipologia della migrazione sulla base delle diverse definizioni e classificazioni di tale fenomeno. Per quanto concerne le cause dei flussi migratori che investono l’Europa, le cause che possono essere indicate sono molteplici. I flussi migratori provenienti dal Vicino Oriente sono dovuti per lo più alla destabilizzazione che le aggressioni occidentali hanno causata in quell’area; come ha detto il presidente siriano nella recente intervista censurata dalla RAI, ‘milioni di persone non potevano vivere qui, quindi hanno dovuto lasciare la Siria’. Nel caso dei flussi di provenienza africana, al saccheggio del continente da parte delle multinazionali si è aggiunta la distruzione della Giamahiria Libica, commissionata dagli USA ai collaborazionisti di Parigi e Londra. Infine, non devono essere trascurate quelle che Kelly M. Greenhill (già assistente del senatore John Kerry e consulente del Pentagono) definisce in un suo celebre studio ‘migrazioni coatte progettate’ (coercive engineered migrations). Le centrali ‘spirituali’ e le organizzazioni ‘filantropiche’ coinvolte in queste operazioni sono fin troppo note”.
Nel suo saggio Mutti affronta anche un tema molto affascinante. Quello della “geopolitica delle lingue”. In tempi di anglofonia dominante e pervasiva anche questo necessita di essere analizzato in profondità.
“Nel rapporto tra lo spazio fisico e lo spazio politico – spiega il direttore di Eurasia – il fattore linguistico svolge un ruolo che non può essere ignorato dalla geopolitica. Per illustrare il carattere multiforme del nesso che lega egemonia linguistica ed egemonia politico-militare, non sarà superfluo ricordare i punti di vista espressi da alcune eminenti personalità politiche e militari. Il Maresciallo di Francia Louis Lyautey definì la lingua come ‘un dialetto che ha un esercito e una marina’; un altro Maresciallo, Iosif Vissarionovič Stalin, nei suoi scritti di linguistica inquadra il rapporto fra le lingue in una cornice conflittuale, affermando che ‘vi possono essere soltanto lingue vincitrici e lingue sconfitte’. Infine, ecco una considerazione estremamente esplicita e realistica fatta da Sir Winston Churchill nel 1943: ‘Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gl’imperi del futuro sono quelli della mente’. Quindi, se è vero che l’importanza di una lingua dipende spesso dalla potenza politica, militare ed economica del paese che la parla e la impone e se è vero che le sconfitte geopolitiche comportano quelle linguistiche, è anche vero che la diffusione internazionale di una lingua aumenta il prestigio, l’influenza culturale e quella politica del paese corrispondente. La colonizzazione linguistica dell’Europa da parte della lingua inglese illustra tutto ciò nella maniera più tragica”.