Mentre l’Europa si trova stretta nella cosiddetta “seconda ondata” del Coronavirus, l’Irlanda è il primo Paese del vecchio continente ad applicare un nuovo lockdown. Il dibattito sul rapporto tra la tutela della salute e quella delle libertà individuali è dunque in pieno svolgimento. Un punto, tuttavia, è fermo. Il Covid-19 esiste, circola e infetta. I circoli negazionisti che stanno sorgendo un po’ in tutto il continente non sono tuttavia un fenomeno da considerare risibile, perché espressione di quelle fasce sociali portate alla disperazione provocata dalle misure di contenimento più rigide.
Sulla cui inevitabilità, dal punto di vista medico-scientifico, non sembra tuttavia esserci un parere unanime. Da ultimo si citi lo studio, pubblicato sul bollettino dell’OMS, del professor John Ioannidis, docente di Epidemiologia e Salute della popolazione all’università di Stanford, tra i massimi esperti mondiali di analisi dei dati in medicina, per cui il tasso di letalità del Covid-19 (si considerino, peraltro, gli errori medici dovuti all’impreparazione e commessi nella prima ondata, come la confusione tra tromboembolia polmonare e polmonite interstiziale), per le persone sotto i 70 anni sarebbe dello 0,05%, con un decesso ogni 2000 contagiati, mentre, per gli over 70, sarebbe pari allo 0,25%, poco più del doppio di quello di una normale influenza stagionale. Comunque si vogliano leggere questi dati, le differenti e conflittuali prese di posizione degli esponenti più autorevoli della comunità scientifica sembrano certificare, piuttosto, che il lockdown sia una decisione squisitamente politica.

Politica come lo è stata la recente presa di posizione, in un capitolo del World Economic Outlook, del FMI – Fondo Monetario Internazionale, una delle istituzioni simbolo dei potentati finanziari dell’emisfero occidentale e del cosiddetto “Washington Consensus”. Ebbene il FMI ha invitato a “riconsiderare la narrativa prevalente sui lockdown“, per la quale sarebbe necessario “un compromesso tra salvare vite umane e sostenere l’economia”.

Non è una novità. Già lo scorso mese di giugno il FMI aveva proposto sul proprio sito ufficiale un articolo dal titolo “Dal Grande Lockdown alla Grande Trasformazione”, firmato dal direttore generale dell’organizzazione, Kristina Georgieva, che si esprimeva in termini sostanzialmente entusiastici in merito alle misure di blocco totale dell’economia e di libertà di movimento delle persone. La serrata delle economie, per la Georgieva, ha aperto infatti a diverse “opportunità”. Tra queste la “trasformazione digitale” e la possibilità di muoversi verso una società “più verde”, coronamento di quella “Grande Trasformazione” di cui al titolo.

Una narrazione positiva dei lockdown che si sovrappone a quella che è stata proposta dal WEF – World Economic Forum di Davos e, soprattutto, dal suo presidente e fondatore, l’economista Klaus Schwaab, con il concetto di “Grande Reset”. Se ne era parlato, in un precedente articolo su questo blog, riportanto la lettura fortemente critica che, del “Grande Reset”, aveva dato un altro economista, l’ex Banca Mondiale Peter Koenig. Forse, tuttavia, e dati gli eventi che si stanno susseguendo con crescente drammaticità soprattutto in Europa, vale ora la pena soffermarsi maggiormente su questo argomento.

Quello che le istituzioni della galassia mondialista e anglofona definiscono “Grande Reset” o “Grande Trasformazione” (ma, sostanzialmente, si tratta della medesima idea) è un concetto presentato, lo scorso 3 giugno, nel corso di un evento online organizzato proprio dal WEF e che ha visto una serie di appelli appassionati da parte di leader del FMI, della Banca Mondiale, del Regno Unito, degli Stati Uniti, dell’industria e della finanza occidentale al fine di sfruttare l’”opportunità” concessa dalla pandemia per “resettare” il modello economico, sostituendolo con quello che è stato definito “Green New Deal”. Tra i convenuti c’era realmente il gotha del mondialismo: dal principe Carlo del Galles, rappresentante del casato reale britannico, a Gina Gopinath, capo economista del Fondo monetario internazionale, passando per António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite.

La discussione intorno al concetto di “Grande Reset” lanciato da Schwaab e soci, sarà al centro del prossimo summit di Davos, che previsto per l’inizio del 2021 ma che, recentemente, è stato fatto slittare al mese di maggio. Per iniziare a capire come il “Grande Reset” immaginato dall’elite globalista e mondialista si possa configurare, tuttavia, è possibile fare riferimento ai concetti espressi dallo stesso Schwaab in un libro intitolato per l’appunto “Covid-19: The Great Reset”, scritto insieme al direttore del Global Risk Network dello stesso WEF, Thierry Malleret, oltre che alle anticipazioni concettuali pubblicate proprio sul sito del World Economic Forum. In una recensione al saggio il già citato Peter Koenig, sostiene che Schwaab e Malleret “ammettono, quasi con una certa soddisfazione, che milioni di posti di lavoro andranno persi e continueranno ad essere eviscerati a velocità mozzafiato, e che milioni di piccole e medie imprese se ne andranno per sempre, che solo poche sopravvivranno, ovvero i conglomerati globalizzati”. Koenig trova, quindi, nel libro, conferma alle ipotesi critiche che già aveva espresso.

Dal sito del WEF, effettuando una sintesi tra i vari panel virtuali e gli articoli proposti, si può comprendere come il Grande Reset si basi essenzialmente su pochi punti fermi: una completa digitalizzazione dell’economia e del mercato del lavoro; una sostituzione delle fonti energetiche tradizionali con quelle alternative; una “Quarta Rivoluzione Industriale”, attraverso le nuove reti 5G e 6G; una riduzione globale delle emissioni.

Il “Grande Reset”, insomma, nelle intenzioni dei suoi estensori, è quello che costringerà il mondo a entrare in un modello economico “verde”. Lo stesso suggerito da Greta Thunberg e, inoltre, da Papa Francesco nella sua enciclica “Laudato si”, il medesimo anticipato da personalità come Al Gore e sostenuto ormai da decenni da ONG anglofone di chiara impronta mondialista come il WWF o Greenpeace. Un modello che piace all’Occidente che vuole emanciparsi dalla dipendenza dalle fonti fossili e dai Paesi produttori, soprattutto in un momento in cui la Cina, primo rivale dello stesso Occidente, è divenuto il primo acquirente mondiale di crude oil, candidandosi così a sovvertire (almeno potenzialmente), il predominio del petro-dollaro negli scambi internazionali.

Questo modello sarà (o, meglio, è già) quello dominato dai colossi del “capitalismo della sorveglianza (peraltro, Shoshana Zuboff, cioè proprio la docente della Harvard Bussiness School che ha coniato la definizione, ha recentemente messo in guardia dall’appaltare ai giganti privati le app per il tracciamento dei contagi), i sovrani della rete come i cosiddetti “big five” della tecnologia: Facebook, Google, Amazon, Apple e Microsoft, che, con la progressiva digitalizzazione della vita quotidiana sono destinati a penetrare con sempre maggiore invasività e capacità di controllo nell’esistenza degli esseri umani.

Il “Great Reset” si sovrappone, tuttavia, anche al documento ‘”Agenda 2030”, pubblicato dalle Nazioni Unite nel 2015 e comprendente 17 obiettivi di sviluppo sostenibile, riassumibili, come riporta l’autorevole analista William F.Engdahl, nell’ambizione di creare un mondo “con uguaglianza di reddito, uguaglianza di genere, vaccini per tutti sotto l’egida dell’OMS e della Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI), lanciata nel 2017 dal WEF in collaborazione con la Bill & Melinda Gates Foundation”. Agenda 2030, sempre citando Engdahl “chiede crescita economica sostenibile, agricoltura sostenibile (OGM), energia sostenibile e moderna (eolica, solare), città sostenibili, industrializzazione sostenibile… Sostenibilità è la parola chiave. Se scaviamo in profondità, è chiaro che si tratti di una parola in codice che cela una riorganizzazione della ricchezza mondiale attraverso mezzi come le tasse punitive sul carbonio che ridurranno drasticamente i viaggi aerei e dei veicoli”.

Ecco che, allora, diventa subito chiaro come abbia perfettamente ragione Koenig quando sostiene che il “Grande Reset” (o “Grande Trasformazione” o “Agenda 2030” che dir si voglia) pur ammantandosi, come sovente avviene in questi casi, di concetti utopici, sottintenda piuttosto l’ennesima distopia elitaria, che prevede una sostanziale erosione dei redditi della classe media per consentire sia la riduzione di consumi ed emissioni, sia quella “uguaglianza di reddito” che non può che tradursi, data la struttura del “capitalismo della sorveglianza”, in un’uguaglianza verso il basso, tendente a una “amazonizzazione” della società, con conseguente trasferimento del reddito sottratto verso il vertice della piramide. Cosa che, del resto, con i lockdown, è già ampiamente accaduta: secondo un recente report di UBS e PWC, durante la grande serrata dell’economia della scorsa primavera, molti esponenti della cosiddetta “superclass” hanno incrementato i propri patrimoni di oltre un quarto. Solo il patrimonio del patron di Amazon, Jeff Bezos, è aumentato di 76 miliardi di dollari. E anche secondo Forbes il patrimonio dei primi 400 miliardari al mondo è incrementato dell’8% solo nell’ultimo anno. Questo è avvenuto mentre i redditi dei lavoratori dipendenti, nel mondo, hanno subito una contrazione complessiva di 3.500 miliardi. Secondo Josef Stadler, capo del family office di UBS, il quadro è tale per cui il mondo post pandemico si presenta con una concentrazione della ricchezza tornata ai livelli del 1905, ossia a quando le battaglie per diritti del lavoro e salari erano ancora agli albori.

Così, il “Grande Reset” assume i contorni di una rivisitazione dell’ordine mondiale in chiave transumanista e intrisa di una pseudo-religiosità cyber-pagana (una sorta di culto della “Madre Terra” dalle tinte hi-tech): un disegno da “fine della storia” che sembra delineare un futuro in cui il mondo e i suoi abitanti si ritroveranno ingurgitati da una ciclopica fabbrica “green“, un alveare umano in cui la maggioranza dei cittadini, quali meri ingranaggi del sistema, avrebbe l’unico scopo di produrre, limitando al minimo svaghi, socialità, consumi. Un incubo per le moltitudini, ma un paradiso per i pochissimi super-ricchi.

Il WEF e i circoli elitari connessi, del resto, non sembrerebbero essere arrivati all’appuntamento con la pandemia impreparati: il 18 ottobre 2019, pochi mesi prima dell’esplosione del Covid, andava in scena a New York l’esercitazione “Event 201”, sponsorizzata proprio dal WEF e dalla Bill e Melinda Gates Foundation (che, di una possibile pandemia da Coronavirus parlava del resto dall’inizio dello scorso decennio), basata su questo presupposto: “È solo questione di tempo prima che una di queste epidemie diventi globale, una pandemia con conseguenze potenzialmente catastrofiche. Una grave pandemia, che si manifestasse come ‘Event 201’, richiederebbe una cooperazione affidabile tra diversi settori, governi nazionali e istituzioni internazionali chiave”. Ecco che, allora, lo scenario proposto dall’esercitazione prevedeva “l’esplosione di un nuovo coronavirus zoonotico trasmesso dai pipistrelli ai maiali alle persone e che, alla fine, diventa trasmissibile in modo efficiente da persona a persona, portando a una grave pandemia. L’agente patogeno e la malattia che provoca sono in gran parte modellati sulla SARS, ma è più trasmissibile negli ambienti comunitari da persone con sintomi lievi”. Praticamente una profezia.

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