Il Che, un pasticcione romantico e sanguinario
Ammettiamolo, le ricorrenze sono una pesante rotture di scatole. Come i compleanni e gli appuntamenti dal dentista. Del resto, Santa Romana Chiesa da due millenni ci ossessiona con gli onomastici e il calendario dei Santi. Ogni giorno ha il suo patrono, il suo defunto, il suo Santo protettore. Amen.
Di peggio vi sono solo le commemorazioni politiche del morto di turno. È una malattia trasversale che puntualmente colpisce sinistra, centro e destra. Una tassa. Puntualmente vi sono i necrofori che ricordano il de cuius designato. Poi vi sono i decennali, i ventennali, i trentennali e avanti così. Il calendario della sfiga. Ovviamente, i laudatores se ne fregano delle volontà del defunto e delle sensibilità dei familiari e, per sentirsi vivi, celebrano e si autocelebrano.
Quest’anno tocca al dottor Guevara, morto 50 anni fa a La Higuera, un paesino di merda della Bolivia. L’ultimo posto in cui ogni persona sana di mente vorrebbe vivere e crepare. Ma andiamo con ordine. Il medico argentino era finito in quel buco puzzolente inseguito dalle sue illusioni e, soprattutto, dai tanti rancori che lo attanagliavano. Un suicidio annunciato.
La vita del “Che” assomiglia ad una stramba giostra: nei Cinquanta, questo figlio della buona borghesia di Rosario risalì in sella alla sua moto, la “Poderosa”, l’intera America Latina scoprendo le miserie e le tragedie di un continente sfruttato, umiliato, stremato. Poi il Guatemala, il Messico e l’incontro con Raoul e Fidel e l’avventura a Cuba.
Nell’immaginario dei più la “rivoluzione” divenne un fatto epico, ma militarmente fu poca cosa: le truppe battistiane erano un’armata di cartapesta — per capirci, inferiori come combattività ai vigili urbani di Monfalcone o di Vigevano — ma pur sempre superiori alle sparute “colonne” dei due Castro e di Guevara. Dopo un po’ di botte e morti, Fidel comprese che l’unica possibilità per cavarsela dall’impiccio era scatenare una jacquerie contadina contro i piantatori, i contadini “ricchi”, i notabili. La sua classe, la sua gente.
Una furbata che trasformò la strampalata spedizione in una vera e propria insurrezione e, poi, in una vittoria. Facile. Battista, oltre che corrotto era anche un codardo: scordandosi gli ultimi fedeli, il 1 gennaio 1959 s’involò, carico di lingotti d’oro, verso la salvezza e l’impunità. Nella gioia dei cubani. Tutti attendevano un cambiamento e tutti aprirono le porte ai “barbudos” sperando nella democrazia.
Una volta al potere Castro e i suoi si accorsero però che le elezioni, i sindacati, i partiti, compagni “tiepidi” o critici erano delle gran scocciature, dei fastidi inutili. Da cancellare. Il “leader maximo” affidò il repulisti all’argentino — già sulla Sierra aveva dimostrato una gran passione per le fucilazioni —; il “comandante” si mise all’opera con entusiasmo e dogmatismo e nella prigione della Cabana le mitragliatri crepitarono per mesi. Non pago il dottore aprì a la Guanaha il primo campo di lavoro forzato cubano in cui rinchiuse gli elementi “antisociali”, ovvero oppositori e papponi, preti e omosessuali, professori e ladri, borghesi e poveracci. Un fritto misto di dolore e paura da spadellare con cura nella cucina della “revolution”. Senza alcun rimorso, nessuna pietà. Per la “querida presencia” l’importante era l’odio, quell’ “odio intrasigente contro il nemico, che permette all’uomo di superare i suoi limiti naturali e lo trasforma in una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere”.
Tanto ardore fu premiato con la nomina a ministro dell’Industria e la presidenza del Banco Nacional. Un disastro pieno. Per salvare l’agonizzante economia di Cuba il pragmatico Fidel mandò l’ingombrante amico in giro per il mondo sperando che si tranquilizzasse, ma l’uomo era ingestibile e le sue sparate di sapore trozkista sulla “rivoluzione mondiale” lo resero inviso sia agli alleati sovietici che ai callidi cinesi. Pur di levarselo di torno, nel 1965 il dittatore lo spedì in Africa a giocare alla guerriglia. Altro disastro. In Congo i mercenari bianchi si dimostrarono ben più coriacei dei soldatini di Battista e Guevara mestamente dovette fare le valigie.
Umiliato ma non domo, il bellicoso Guevara decise d’incendiare la Bolivia e s’infilò con un pugno di fedeli in una trappola fatale. Laggiù nessuno lo attendeva. Mario Monje, segretario del PC locale e fedele a Mosca, lo snobbò rifiutandosi “di partecipare a una farsa” e bloccò ogni appoggio da operai e minatori. I contadini rimasero diffidenti se non ostili e dall’Avana non arrivò più alcun rinforzo. Era ora di ritirarsi, ma lo “stratega da farmacia” — definizione di un comunista serio come Giorgio Amendola — scelse di perseverare, sommando errore su errore, sino alla cattura e la morte.
Fine della storia? No. Paradossalmente fu proprio la catastrofe boliviana a salvare Guevara dall’oblio e dall’irrilevanza, trasformandolo in un’icona, in un simbolo. Quel corpo steso sul tavolo de La Higuera, così simile al Cristo morente del Mantegna, infiammò in Occidente l’immaginazione di milioni di ragazzi pasciuti ma inquieti che innalzarono ovunque canti e slogan in onore del caduto.
Un impasto di romanticismo politico ed estetismo militare. Il Che — trasfigurato dalla foto di Korda “pizzicata” da G. Feltrinelli — divenne l’alibi per dimenticare tutto e tutti: il fallimentare tropical-comunismo di Fidel, i gulag sovietici, le follie maoiste, l’imbecillità velleitaria dei gruppetti rossi, il compromesso storico, la caduta del Muro etc. etc. Finita la sbornia ideologica è subentrato il commercio della nostalgia. Di cattivo gusto ma sicuramente redditizio. Dalle bancarelle ad internet (i “Guevara store”) in tanti il prossimo 9 ottobre dovrebbero ringraziare il dottor Ernesto Guevara de La Serna, morto a 39 anni in culo al mondo per diventare, suo malgrado, un gadget. Sic transit…