Torni dall’Egitto e riposi in pace Vittorio Emanuele. Riposi nel suo Piemonte. Riposi accanto ad Elena, il suo amore montenegrino. Finalmente, nel silenzio di una antica abbazia sabauda, “Curtatone e Montanara” — la definizione è degli Aosta, il ramo cadetto ed impertinente della dinastia —  possano dormire assieme. Bene.

Torni in Patria Vittorio, il  re che seppe difendere nel 1917 a Peschiera, all’indomani di Caporetto, l’onore dell’Italia. Venga sepolto lassù, tra langhe, colline e montagne, il sovrano che nell’ottobre del 1922 impedì una guerra civile e poi, di malavoglia, accettò una modernizzazione autoritaria forgiata dal figlio di un fabbro di Predappio. Vittorio, borbottando,  firmò ogni sua legge: la scuola di Gentile, le riforme sociali, le “città nuove”, le pensioni, l’orario di lavoro,  i diritti delle madri, la salvaguardia dell’ambiente di Bottai e molto altro. Tante firme, anche sui provvedimenti  più stupidi ed odiosi. Gli errori del Fascismo.

La storia è nota. Inutile aggiungere note superflue. Basta leggere De Felice. Per un ventennio lui e tutti i Savoia preferirono crogiolarsi nel ventre caldo del regime, accettando cariche, piume, soldi e corone (Etiopia, Albania). Un bel gioco. Poi, la guerra. Nel giugno del 1940 Vittorio chiese al Duce — sempre De Felice — Nizza, Savoia, il confine al Var. La “roba” che Cavour aveva barattato con Napoleone  III in cambio dell’Unità. Piccoli calcoli dinastici in una guerra mondiale. Con l’età gli orizzonti dell’uomo si erano erano ristretti  tra le sue monete  (era un numismatico compulsivo), la famiglia e gli egoismi di casta.

Poi, le vittorie (poche) e le sconfitte (tante) sino al 25 luglio del 1943. Il crollo. La classe dirigente fascista — una folla di gerarchi, ministri, di “fedelissimi” e, persino,  il genero  —  decise di suicidarsi offrendo al  sovrano il pretesto per arrestare  Mussolini e imbarcalo in un’ambulanza. Poi, con  il “generalissimo” Badoglio — massone, affarista e cretino — il re organizzò, nel modo peggiore possibile,  l’armistizio. L’8 settembre 1943.

Una data pesantissima che, giustamente, Galli della Loggia, ha definito la “morte della Patria”. Poi la fuga ad Ortona e l’imbarco di reali e gallonati sulla corvetta Baionetta — la “zattera della Medusa” della dinastia — verso Brindisi. L’usbergo graziosamente concesso dagli invasori al monarca .

Un piccolo ricordo. Tanti, troppi anni fa, con mio padre scoprivo Alessandria d’Egitto. Arrivati alla Cattedrale cattolica ci accolse un padre francescano. Al termine della visita  chiese se volevamo visitare la tomba del Savoia. Babbo s’inalberò. «No, no. Lui ci ha traditi, ci ha abbandonato, ci ha umiliato». Non l’avevo mai visto così adirato. Una volta usciti dal tempio mi raccontò il suo 8 settembre ’43. La flotta salpata da La Spezia — corazzate, incrociatori, caccia — per la “battaglia dell’onore”. Lo scontro decisivo e finale contro gli anglo-americani nel mare di Salerno . Un beau geste. In navigazione arrivò, invece, l’ordine di mettere a prua verso sud e innalzare pannelli neri come segno di resa. Poche ore dopo i tedeschi affondarono la “Roma”, il gioiello della nostra Marina. Poi l’umiliazione a Malta. Babbo era imbarcato sul cacciatorpediniere Grecale, una delle prime unità a cui gli inglesi consentirono di rientrare a Taranto. Quel giorno, mentre una banda raffazzonata suonava l’inno del Piave, i marinai scorsero sulla banchina il re e e suo figlio. Dalla tolda una tempesta di fischi e insulti salutarono i reali.

Storie vecchie. Vittorio Emanuele torni pure dall’Egitto. Lo si chiuda nel suo sepolcro alpino. Dorma in pace. Chi vuole lo pianga, sventoli bandiere, indossi i palandrani dei vari sodalizi sabaudi. Chi vuole suoni la “Marcia reale”. I defunti vanno rispettati. Sempre. Ma non si chieda per Vittorio la sepoltura al Pantheon. La meritebbe, piuttosto, Carlo Alberto — in ogni caso un personaggio centrale del processo unitario — e, forse, forse —  Umberto II, ma non il “re sciaboletta”. No, lui no. No.

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