Un piano per l’Africa. Prima che sia troppo tardi
In questa stramba estate trascorsa tra porti prima chiusi e poi aperti, ministri “cattivisti” ed ex ministri “buonisti”, politici guasconi e pessimi magistrati, rare sono state le voci ragionanti. Certo, gridare, rumoreggiare, insultare, semplificare piuttosto che riflettere e analizzare un fenomeno epocale come le migrazioni africane è sicuramente più facile e, sull’immediato, pagante. A destra come a sinistra. Da qui le strampalate kermesse sinistrose di Catania e Milano o le “grida” (ricordate Manzoni?) governative e le boutades “navaliste” di certi destrosi ignari di ogni nozione di Diritto del mare.
Eppure in questo tsunami di sciocchezze e banalità si scorge anche qualche pensiero lungo. Anche in luoghi impensati e da personaggi imprevisti. È il caso, per esempio, del Corrierone dello scorso 11 agosto. Quel giorno il quotidiano di Urbano Cairo ha pubblicato due interventi decisamente interessanti. Il primo è l’intervista a padre Alex Zanotelli, un vecchio missionario comboniano che dopo decenni passati nell’Africa più disperata porta avanti oggi la sua battaglia nelle zone più degradate di Napoli.
Siamo chiari. Dell’ex direttore di “Nigrizia” non condividiamo le sue visioni ireniche e il suo vetero terzomondismo ma sempre abbiamo rispettato il suo dolente cammino tra le sofferenze umane e la sua grande onestà intellettuale. Non a caso all’imbarazzato giornalista Zanotelli ha ribadito una volta di più la sua dura critica all’”industria della carità”, quel vasto complesso deliquenziale che da anni lucra sul traffico d’uomini e donne. Il religioso è caustico: «le organizzazioni umanitarie dell’Onu bruciano l’80 per cento delle risorse per il loro mantenimento. Il personale dell’Alto commissariato per i rifugiati sverna in hotel di lusso accanto ai campi profughi».
Zanotelli ne ha anche per gli sponsor delle Ong: «gli otto uomini più ricchi del pianeta, con in testa Jeff Bezos di Amazon, posseggono quanto 3,6 miliardi di poveri e fanno tanta carità, a condizione che non si tocchi il sistema». Sul sistema italiano l’anziano comboniano è chiaro: «contesto questo tipo d’accoglienza. È un business. Come quello degli hotel decrepiti riaperti per i richiedenti asilo a Napoli». Parole su cui certi vescovi (e non solo loro…) dovrebbero meditare.
Qualche pagina dopo un’altra sorpresa. Giampaolo Silvestri, segretario generale di Avsi, — seria e importante organizzazione per la cooperazione — è intervenuto sul “Piano Marshall” per l’Africa, da molti considerato una chimera, un’illusione. Per Silvestri il progetto «non solo è possibile, ma è arrivato il momento giusto per avviarlo. A condizione di spostare le risorse di pensiero e di azione che impegniamo in dialettica su altro. In primis sulla collaborazione tra tutti fondata sulla consapevolezza che il nostro Paese ha i numeri buoni, adesso, da giocare». Aiutiamoli a casa loro, dunque senza dilapidare capitali in progetti d’impossibile integrazione: «le risorse ci sono, anche solo mantenendo gli impegni presi dai governi precedenti sui fondi destinati alla cooperazione (0,29% del Pil nel 2017 con l’obiettivo di arrivare allo 0,30 nel 2020) e spostando i circa 500 milioni che si potranno risparmiare dal capitolo accoglienza a interventi di cooperazione nei Paesi». E ancora, «si potrebbe avviare il piano là dove l’Italia è già presente e conosce il contesto e nei luoghi da cui arrivano i migranti: cominciamo da Kenya, Mozambico, Uganda, Nigeria, Costa d’Avorio, Niger».
Ma attenzione tutto dev’essere controllato e gestito in modo trasparente. Il dirigente di Avsi è netto «gli aiuti devono passare attraverso soggetti competenti in ambiti diversi e costantemente monitorati e valutati nei loro risultati effettivi. Non è più possibile pensare di consegnare fondi per lo sviluppo tramite il budget support a governi altamente esposti alla corruzione».
Ragionamenti importanti, validi che speriamo qualcuno nel “Palazzo” raccolga e interpreti. Prima che sia troppo tardi.