Un piccolo angolo d’Africa molto affollato. È Gibuti, il micro Stato (circa 900mila abitanti su 23mila kmq) indipendente dalla Francia dal 1977. Decisamente un posto inospitale: sabbia, roccia lavica, caldo atroce e ancora molta miseria. Eppure l’ex “Territorio degli Afar e Issa”, già Somalia francese, interessa a molti.  Merito della geografia che ha inchiodato la desolata repubblica proprio sullo stretto di Bab al Mandab, la “Porta delle lacrime” da cui transitano ogni anno circa 25mila navi e il 40 per cento delle forniture mondiali di petrolio.

Per quasi un secolo la strategica posizione è stata controllata dall’antica potenza coloniale e garantita dai legionari, severi custodi di Camp Lemonnier, la principale base francese d’oltremare. Ma, al netto della “grandeur” transalpina, si trattava di una presenza sonnacchiosa, quasi letargica con pochi investimenti e ancor meno aiuti. Poi l’11 settembre 2001, l’emergenza terrorismo. Il Pentagono decise che Gibuti era la piattaforma ideale per il controllare Medio Oriente, Oceano Indiano e Africa e in pochi mesi Washington sostituì Parigi. Nel 2002 la Legion Etrangere dovette fare i bagagli, lasciando la sua storica caserma ai marines, e il porto si riempì di navi a stelle e strisce. Per il presidente gibutino Ismail Omar Guelleh, al potere dal 1999, e per la striminzita economia locale il massiccio arrivo dei nuovi amici rappresentò una boccata d’ossigeno: da allora, tra pagamenti diretti ed indiretti, gli statunitensi assicurano annualmente a Gibuti 200 milioni di dollari, più o meno il 10 per cento del PIL.

Un’ulteriore spinta è arrivata dalla pirateria somala. Allarmati dai continui sequestri di navi mercantili e pescherecci, nello scorso decennio i governi occidentali e asiatici inviarono le loro unità a pattugliare la zona di mare compresa il Corno d’Africa, il golfo di Aden e le Seychelles. Un dispiegamento tutt’ora in corso come la Missione Atalanta —  istituita nel 2008 dall’Unione Europea a cui l’Italia contribuisce con i mezzi della nostra Marina Militare — e le parallele iniziative americane, cinesi, giapponesi e indiane.

Negli anni i gibutini hanno affittato con assoluta disinvoltura spazi e strutture a chiunque richiedesse, trasformando il Paese in un inedito condominio di marine ed eserciti stranieri. Un’operazione immobiliare decisamente fruttuosa. Nelle rispettive basi posizionate a sud della capitale, sono stanziati quattromila soldati americani, 1450 militari francesi (con contingenti spagnoli, olandesi e tedeschi), 200 giapponesi e anche 140 italiani. Dal 2013 è infatti operativa la base militare interforze intitolata significativamente ad Amedeo Guillet, il mitico “Comandante Diavolo” eroe della resistenza italiana in Africa Orientale nel secondo conflitto. La struttura fornisce supporto logistico ai contingenti nazionali che operano nell’area e formazione alle forze armate gibutine oltre promuovere iniziative sociali di vario tipo e alterno interesse (tra cui persino un surreale corso di formazione per pizzaioli per gli studenti della scuola alberghiera locale). Mentre i nostri soldati s’impegnano nella gastronomia — lodevole impresa, ma forse le donne e gli uomini con le stellette avrebbero altri compiti… — i loro condomini sono in altre faccende affaccendati.

A Gibuti tutti controllano tutti. Americani e francesi (ridimensionati ma sempre attenti) tengono sott’occhio sono i duemila militari cinesi che popolano la grande base portuale inaugurata nel 2017. Ufficialmente la struttura (la prima all’estero) è un punto d’appoggio per navi ed equipaggi impegnati in missioni antipirateria; ricordiamo che Pechino dal 2008 ad oggi ha movimentato contro i bucanieri somali più di 70 unità tra cacciatorpediniere, fregate e rifornitrici e mantiene un task force navale permanente davanti Aden. In realtà la base risponde a logiche di più vasta portata. L’installazione ha una capacità d’accoglienza per diecimila effettivi e rappresenta una porta d’accesso sicura per accedere al cuore del continente, nonché un punto nevralgico lungo la rotta marittima delle nuove vie della seta. Una somma micidiale d’investimenti, commerci e flussi energetici che Pechino vuole garantire rovesciando una valanga di soldi sulla piccola repubblica. Nel 2017 i cinesi hanno inaugurato, proprio in fronte alla loro base, il porto multifunzionale di Doraleh e un terminal petrolifero e aperto la nuova linea ferroviaria Addis-Abeba-Gibuti; un anno più tardi è entrata in funzione una zona franca di 43 kmq, un progetto di 3,5 miliardi di dollari, gestita da tre aziende cinesi. Parallelamente gli asiatici hanno costruito strade, aeroporti, alberghi, centri commerciali, acquedotti e sono in fase di realizzazione un gasdotto di 700 chilometri verso i giacimenti dell’Ogaden etiopico e un oleodotto per il Sud Sudan. L’obiettivo, come informa un documento di Bank of China, «è trasformare il Paese, da hub logistico regionale in un hub finanziario e in un crocevia commerciale globale». Insomma, una nuova Dubai in versione gialla.

L’attivismo dell’Impero di mezzo preoccupa non solo gli occidentali ma anche sauditi ed emiratini. I primi hanno richiesto e ottenuto da Ismail Omar Guelleh una base militare mentre i secondi si sono installati ad Assab, nell’Ottocento la prima stazione coloniale italiana, e sono in procinto di posizionarsi a Berbera, nell’auto proclamata repubblica del Somaliland. Non mancano, ovviamente, i russi, dopo un ventennio d’assenza nuovamente presenti in Africa. Mosca ha chiesto un punto d’appoggio per la sua flotta ma le pressioni americane rendono problematiche le trattative.

Insomma, attorno all’uscio geopolitico di Bab al-Mandab tutto è in movimento. Speriamo che, prima o poi, qualcuno a Roma se ne accorga e si renda conto che la grande politica non si fa cucinando pizze…

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