La sfide dell’Africa. Nasce il mercato comune panafricano
Nella narrazione dominante l’Africa è un immenso disastro, un continente stremato dai conflitti e dalle carestie, un “cuore di tenebra” che inghiotte ogni speranza. Ovviamente le colpe sono tutte e soltanto del rapace imperialismo europeo — e non importa che la parentesi coloniale sia durata lungo appena 80 anni, dalla conferenza di Berlino del 1884 ai primi anni Sessanta del Novecento… — e le migrazioni sono la giusta, ineluttabile e inarrestabile punizione. Dunque pentitevi e aprite subito porti e città. Una visione ideologica, superficiale e sbagliata cui corrisponde una vulgata opposta e altrettanto errata quanto perdente: beatificare defunti passati imperiali, rimpiangere “fardelli dell’uomo bianco”, crogiolarsi in opache saghe sui “soldati perduti” sono esercizi semplicemente inutili. Pensieri corti.
Semplificare significa travisare. L’Africa non è un blocco omogeneo, l’Africa è plurale. Vi sono le Afriche, «una rete di complessità con modelli culturali, politici, religiosi profondamente diversi e contradditori». Lo ricordava, in suo intervento su “Limes”, il senatore Alfredo Mantica, già sottosegretario agli Esteri nei governi Berlusconi e profondo conoscitore del continente. Ma per pigrizia o ottusità noi preferiamo vedere soltanto «un ammasso indistinto di numeri ed emozioni, gravato da povertà e malattie, a cui offrire modelli sociali riciclati e di breve termine; resta esclusa l’Africa fatta da giovani, di energie inespresse, di potenzialità enormi da sfruttare, di spazi immensi, di ricchezza di materie prime».
Mantica ha ragione. Accanto ad una panoplia di nazioni alla deriva (il Sahel, il Centrafrica, il Sud Sudan) o di Stati falliti (in primis, Libia e Somalia, le nostre ex colonie…) e nonostante la crescita di violenze jihadiste dal Sahara al Mozambico, vi è un’Africa resiliente, un’Africa che avanza. Anche in tempi di pandemia. Una stima dell’agenzia Bloomberg mostra come sette dei dieci paesi più in crescita nel 2020 siano africani, sia pure con ritmi di espansione fiaccati dalla crisi del Covid: l’Etiopia (3%), l’Uganda (2,1%), la Costa d’Avorio (2%), l’Egitto (1,9%), Ghana e Rwanda (entrambi 1,3%) e Kenya (1%). Il tutto sullo sfondo di un Pil dell’intera regione sub-sahariana lievitato — dati FMI — del + 54,2 % tra il 2007 e 2020.
Numeri importanti a cui si aggiungono le previsioni sull’impatto dell’African Continental Free Trade Area (AfCFTA), la maxi area di libero scambio che riunisce tutti i Paesi africani, ad eccezione dell’Eritrea. Secondo le analisi della Banca Mondiale l’accordo, operativo dal 2021, rivoluzionerà il panorama commerciale dell’intero continente: una volta a regime l’AfCFTA aumenterà il reddito continentale del 7% ovvero di 450 miliardi di dollari, accelerando la crescita dei salari per le donne e sollevando 30 milioni di persone dalla povertà estrema entro il 2035. Obiettivi raggiungibili e legati indissolubilmente al decollo del commercio intra-africano, al momento più che marginale nelle bilance di qualunque Paese africano.
L’accordo si intreccia con un altro cruciale progetto panafricano di cui poco si parla in Italia e in Europa: la Great Green Wall, la grande muraglia verde di ottomila chilometri d’alberi che si estenderà tra Gibuti e il Senegal, tra l’Oceano Indiano e l’Atlantico. Una cintura di piante sul margine meridionale del Sahara per fermare la desertificazione (ogni anno il deserto avanza di due chilometri) e le conseguenti crisi alimentari e migratorie. Grazie al grande progetto, avviato nel 2007 e oggi realizzato al circa al 20 per cento, sono stati recuperati già cinque milioni di ettari di terra in media per Stato con migliaia di nuovi posti di lavoro diretti e indiretti. Il record è del piccolo Senegal dove sono stati piantati 12 milioni d’alberi e restituiti agli agricoltori 25mila ettari di terreni aridi. Un’alternativa reale alla povertà e all’insicurezza alimentare.
Scenari che attraggono un enorme afflusso di investimenti e capitali esteri e suscitano formidabili appetiti politici e militari. In pole position c’è ovviamente Pechino che sta trasformando l’intera Africa orientale in una piattaforma dell’import-export cino/euro/africano. Una scelta strategica di lungo periodo: attraverso lo stretto di Bab al-Mandeb e il Mar Rosso scorre quasi tutto il traffico tra Europa e Asia (un interscambio pari a 700 miliardi di dollari), per l’economia cinese un passaggio vitale. Da qui gli investimenti per una serie di grandi progetti infrastrutturali (porti, strade e ferrovie) finalizzati a creare — tra Addis Abeba, Gibuti, Nairobi, Mombasa, Lamu e Kampala — un network logistico transafricano sinergico ai piani del “celeste impero”. Ma il denaro, come ricordava un film di successo, «non dorme mai» ed ecco allora la presenza di Turchia, Arabia Saudita, monarchie del Golfo e, con discrezione, Israele; una folla di attori tutti irresistibilmente attratti dai nuovi mercati, dai giacimenti di gas e petrolio e dalle risorse minerarie. Un complicato risiko geopolitico ed economico in cui gli europei, in ordine sparso, stanno cercando di rientrare.
E l’Italia? Il patrio Stivale — da tanto, troppo tempo privo di una politica africana — annaspa e arretra. Come stigmatizza Mantica, vista dal governo di Roma l’Africa si riduce «solo a emergenza. E infatti in emergenza è nato nel 2017 un piano per 200 milioni di euro destinato quasi esclusivamente ai paesi africani attraversati dai flussi migratori e affidato alla direzione del ministero degli Esteri che si occupa di questo tema. Confermando una scelta governativa che vede ormai il ministro degli Interni spaziare nell’area Esteri, nella misura in cui si inseguono i migranti sul territorio africano. La logica delle emergenze all’italiana è sempre una: elettorale».
Su queste strampalate coordinate la Farnesina ha declassato la Direzione generale Africa e ridotto drasticamente la nostra rete diplomatica: 20 sedi nel sub-Sahara contro 44 francesi, 42 cinesi, 39 tedesche, 33 inglesi, 32 brasiliane, 30 turche, 26 indiane. La società Dante Alighieri — un tempo punta di diamante del soft power tricolore — è presente soltanto in Sud Africa, in Mozambico, Congo Brazzaville, Zimbawe, Marocco, Egitto e Tunisia; dopo la recentissima (e incomprensibile) chiusura del liceo italiano ad Asmara rimangono complessi scolastici italiani soltanto a Lagos, Brazzaville, Addis Abeba, Casablanca, Cairo, Tunisi. Poca roba.
Come è noto gli assenti hanno sempre torto e gli errori si pagano. La nostra recentissima esclusione/espulsione dallo scenario libico è solo l’ultima tappa di una trentennale ritirata iniziata nel Corno d’Africa (dove nulla più contiamo) e proseguita con l’evaporarsi della nostra presenza in Egitto, Tunisia e Algeria e l‘abbandono di posizioni significative in Mozambico e Sudan, due teatri che abbiamo contribuito a pacificare e stabilizzare.
Al solito a difendere gli interessi nazionali resta l’Eni, paradossalmente oggi sotto processo per le presunte tangenti pagate in Nigeria (simpatico Paese che vanta il 146mo posto nello sprofondo della corruzione internazionale). Un paradosso. Come ricordava Gian Micalessin su “Il Giornale” «l’amministratore Claudio Descalzi, come il suo predecessore Paolo Scaroni indagato nella stessa vicenda, è un protagonista e un alfiere dei successi dell’Eni. Scaroni in Libia ci salvò quando, caduto Gheddafi, sembravamo condannati a cedere gas e petrolio a Qatar e Francia. Descalzi, grazie alla sua esperienza tecnica assicura all’azienda un ruolo di eccellenza nella ricerca e nella diversificazione geografica ed ha all’attivo la scoperta del maxi giacimento egiziano Zohr. Questi meriti travalicano il campo energetico ed economico. Oltre a contribuire in maniera significativa al nostro disgraziato Pil i traguardi dell’Eni conferiscono all’Italia uno spessore e una visibilità internazionale assai superiori a quelli, assai più modesti, garantitegli invece dall’attuale classe politica».
Assieme all’azienda di San Donato Milanese vi è poi un pugno di “capitani coraggiosi”, imprenditori lungimiranti come Piero Salini di We Built, società attualmente impegnata in Etiopia e Namibia. Grazie a loro manteniamo un export in Africa del valore di 17,3 miliardi di euro (dati 2019), in crescita media del 2,3% negli ultimi cinque anni. Non molto rispetto ai nostri concorrenti ma nemmeno un dato trascurabile, anzi. Lo sottolinea su “Il Sole 24 Ore” Cleophas Adrien Dioma, presidente di Italia Africa Business Week, un appuntamento annuale sulle opportunità del Continente: «Le Pmi italiane sono i migliori partner delle Pmi africane. Bisognerebbe cercare le occasioni prima che altri occupino gli spazi disponibili, penso a settori come l’agri-business ed energie rinnovabili ma anche a nuove tecnologie, digitalizzazione, servizi finanziari e grande distribuzione, il trasporto e la logistica. Infine, considerando i nuovi target di clienti, i settori moda, cosmesi, benessere e luxury».
Ragionamenti importanti, dati pesanti e prospettive interessanti che non si esauriscono nella bilancia commerciale. Piaccia o meno l’orizzonte è quello dell’interesse nazionale, unica e vera linea guida di una politica seria, alta. Una riflessione obbligata per tutti coloro che non si rassegnano al declino, alla fuga dalla Storia. Al di là dell’emergenzialismo, degli interventi incoerenti, della filantropia pelosa, è tempo di guardare alle tante Afriche e agli africani con occhi e pensieri nuovi. Lasciando alle spalle logori schemi e formule inconsistenti e datate.