Mare/ I no green pass bloccano i porti. Ma i veri problemi sono altri
La stramba disfida del green pass davanti ai cancelli dei nostri porti ha ricordato per un attimo agli italiani (popolo molto terragno) l’esistenza della marina mercantile, della logistica, della “Blue Economy”. Del mare. Un comparto centrale, quanto misconosciuto, della nostra economia.
Ma andiamo per ordine. Al netto delle cronache e delle opposte tifoserie, ricordiamo che l’asse dei traffici mondiali si sta spostando verso Sud e il Mediterraneo, l’ex Mare Nostrum, sta riconquistando una sua centralità, polarizzando circa un quinto dei traffici marittimi mondiali e oltre un quarto dei traffici container. Un quadro positivo che potrebbe (sempre che una minoranza di lavoratori non si ostini a paralizzare ad oltranza gli scali) rilanciare l’Italia come un grande unico porto.
Tutto bene? Non proprio. I problemi, green pass e no vax a parte, sono altri e ben più gravi. Lo si evince dalla relazione che Alessandro Santi, presidente di Federagenti, ha tenuto all’assemblea generale della categoria. Lo scenario è tutt’altro che rassicurante sullo stato di salute della portualità italiana e sulle sue capacità di sfruttare una contingenza forse unica per il suo rilancio. Un quadro talmente grave da giustificare, secondo Santi, l’istituzione di un “gabinetto di guerra”, un centro decisionale dotato di pieni poteri che non sfoci nella solita e inutile cabina di regia.
L’Italia, riferisce Santi, è al decimo posto tra i paesi del Mediterraneo per volumi intercettati tra quelli transitanti nel Mediterraneo. «Fanno meglio di noi la Grecia, la Spagna ma anche prepotentemente i porti del Nord Africa». Solo il 3 per cento dell’import/export da e per la Cina (prima relazione di import italiana con circa il 20% del volume) che usa porti italiani transita verso altri paesi europei. Siamo i peggiori: Olanda 49%, Grecia 57%, Belgio 39% e Germania 23%. La World Bank ci colloca al 19 posto nel 2018 nella statistica del Logistics Performance Index, che stima l’efficienza delle catene logistiche dei paesi prendendo in considerazione sia le infrastrutture fisiche che quelle immateriali. Infine, Cassa Depositi e Prestiti stima per le aziende italiane costi logistici supplementari superiori al dieci per cento rispetto a livello medio dei loro competitori europei. Dati e numeri preoccupanti che impediscono all’Italia di cogliere le opportunità post-pandemia di pensare a servizi in funzione del re-shoring di imprese in Europa o alle conseguenze potenzialmente positive della transizione energetica.
Da qui la richiesta di misure di emergenza nazionale serie in grado di garantire l’accessibilità dei porti sia dal mare (molti scali corrono incontro a un blocco a causa degli insufficienti dragaggi dei fondali) che da terra (Genova assediata dai mezzi pesanti e penalizzata da autostrade disastrate e pessimi collegamenti ferroviari). Nella sua relazione Santi ha chiesto con forza (e a ragione) una grande alleanza. «Senza misure di cambiamento radicale, anche i progetti del Recovery Plan non potranno produrre nulla di concreto». Qualcuno avverta gli scioperanti no green pass. I problemi sono più complessi e urgenti che un tampone o una tesserina…