Latte italiano, addio!
Che cosa pensereste se veniste a conoscenza che il latte che avete bevuto stamattina a casa o con il quale il barista vi ha preparato il cappuccino proviene dalla Germania se non dalla Slovacchia o dall’Estonia? Che cosa vi verrebbe in mente se comprendeste che la mozzarella che avete mangiato nel vostro pranzo volante assieme a una fetta di prosciutto è stata prodotta con una cagliata polacca? Il mondo del latte non è più quello bucolico di una volta, ma una vera e propria giungla. Esploriamola insieme!
Dall’inizio della crisi è stata chiusa una stalla italiana su cinque con la perdita di 32mila posti di lavoro. Il rischio concreto è la scomparsa del latte italiano e dei nostri formaggi dalle tavole degli italiani, con effetti drammatici anche sulla sicurezza alimentare. È quanto emerge dal dossier della Coldiretti «L’attacco alle stalle italiane». In Italia le circa 36mila stalle sopravvissute nel 2014 hanno prodotto 110 milioni di quintali di latte mentre sono circa 86 milioni di quintali le importazioni di latte equivalente. Per ogni milione di quintale di latte importato in più scompaiono 17mila mucche e 1.200 occupati in agricoltura.
La fotografia
Il settore lattiero-caseario in Italia annovera 35.544 aziende, secondo dati Agea 2012. Con 1.862.000 vacche da latte la produzione nazionale di latte vaccino è di circa 11 milioni di tonnellate, per un valore pari a 4,8 miliardi di euro. Il 50% del latte prodotto in Italia viene trasformato in formaggi Dop, con l’industria di settore che esprime un fatturato di 14,9 miliardi di euro, pari a circa l’11% del fatturato dell’industria alimentare italiana. Secondo i dati Iri citati dal Sole 24 Ore, nel 2014 le vendite di latte fresco nella grande distribuzione sono precipitate del 6,2% in volume e del 4,3% in valore mentre il latte a lunga conservazione (l’Uht) è arretrato, rispettivamente, del 3,1% e dello 0,4%. Deboli anche il comparto dei formaggi (-2,3% a volume) e degli yogurt (-2%). La pressione promozionale ha attutito il trend negativo.
Occorre ricordare che la filiera del latte rappresenta 180mila posti di lavoro, ma anche una ricchezza economica di 28 miliardi di euro, pari al 10% del valore prodotto dall’agroalimentare italiano. La chiusura di una stalla non significa solo una perdita di posti di lavoro e di reddito, ma anche un danno: il 53% degli allevamenti italiani si trova in zone montane e svantaggiate e svolge un ruolo insostituibile di presidio del territorio la cui manutenzione è assicurata proprio dal lavoro silenzioso di pulizia e di compattamento dei suoli svolto dagli animali.
Sulla base delle elaborazioni Coldiretti su dati Ismea, nel 2014 il latte è stato pagato agli allevatori in media 0,35 centesimi al litro, con un calo di oltre il 20% rispetto all’anno precedente, mentre al consumo il costo medio per il latte di alta qualità è di 1,5 euro al litro, di qualche centesimo superiore allo scorso anno. E la situazione rischia di precipitare nel 2015 con il prezzo riconosciuto agli allevatori che non copre neanche i costi di produzione e spinge verso la chiusura migliaia di allevamenti. In altre parole gli allevatori devono vendere tre litri di latte per bere un caffè al bar, quattro litri per un pacchetto di caramelle, quattro litri per una bottiglietta di acqua al bar mentre quasi 15 litri per un pacchetto di sigarette. Ma soprattutto il prezzo riconosciuto agli allevatori non copre neanche i costi per l’alimentazione degli animali e sta portando alla chiusura di una media di 4 stalle al giorno con effetti sull’occupazione, sull’economia, sull’ambiente e sulla sicurezza alimentare degli italiani.
A tutto import
Dall’inizio della crisi nel 2007 ad oggi le importazioni di prodotti lattiero-caseari dall’estero sono aumentate in valore del 23 per cento. Oggi l’Italia importa il 40% del latte e dei formaggi che consuma. Nell’ultimo anno hanno addirittura superato il milione di quintali le cosiddette cagliate importate dall’estero, che ora rappresentano circa 10 milioni di quintali equivalenti di latte pari al 10 per cento dell’intera produzione italiana. Si tratta di prelavorati industriali che vengono soprattutto dall’Est Europa che consentono di produrre mozzarelle e formaggi di bassa qualità.
Dalle frontiere italiane passano ogni giorno 24 milioni di litri di latte equivalente tra cisterne, semilavorati, formaggi, cagliate polveri di caseina per essere imbustati o trasformati industrialmente e diventare mozzarelle, formaggi o latte italiani. Complessivamente in Italia sono arrivati 8,6 miliardi di chili in equivalente latte (fra latte liquido, panna, cagliate, polveri, formaggi, yogurt e altro) che vengono utilizzati in latticini e formaggi all’insaputa dei consumatori e a danno degli allevatori perché non è obbligatorio indicare la provenienza in etichetta. Ad essere indicato come italiano è il latte proveniente in cisterne soprattutto da Germania, Francia, Austria, Slovenia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca, Polonia e Olanda. In particolare si assiste ad un sostanziale aumento dell’import dei Paesi dell’Est ( +18% Ungheria, + 14% Slovacchia, + 60% Polonia) e una diminuzione di quello importato dai Paesi dell’Ovest (-7% dalla Germania e -13% dalla Francia), secondo le elaborazioni Coldiretti su dati Istat relative ai primi dieci mesi del 2014. Ci sono però anche le cagliate da impiegare nella produzione di mozzarelle che arrivano principalmente dai Paesi dell’Est per un quantitativo che ha raggiunto il milione di quintale all’anno ed è diretto per un terzo in Campania. E tra i Paesi esportatori la Lituania negli ultimi 3 anni ha triplicato le spedizioni in Italia.
Un chilogrammo di cagliata usata per fare formaggio sostituisce circa dieci chili di latte e la presenza non viene indicata in etichetta perché non è ancora obbligatoria l’indicazione di origine. Sul mercato europeo ed anche in Italia sono arrivati anche i similgrana di bassa qualità spesso venduti con nomi di fantasia che ingannano i consumatori sulla reale origine che è prevalentemente di Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Estonia e Lettonia. Una concorrenza sleale nei confronti degli autentici Parmigiano reggiano e Grana Padano che devono essere ottenuti nel rispetto di rigidi disciplinari di produzione. Il mercato dei similgrana prodotti nell’Unione Europea è una operazione che, da calcoli prudenziali, vale sul mercato della distribuzione 2 miliardi di euro e che equivale, in termini di valore, all’export di Parmigiano Reggiano e Grana Padano.
Lo strapotere francese
L’ultima operazione della multinazionale del latte francese Lactalis è stata l’acquisizione del Consorzio Cooperativo Latterie Friulane. Coldiretti non l’ha presa bene perché, secondo l’organizzazione, il gruppo transalpino ne avrebbe approfittato per chiedere agli allevatori italiani fornitori un ulteriore taglio a 35 centesimi al litro del prezzo del latte.
La presenza della multinazionale francese Lactalis in Italia inizia nel 2003 con l’acquisizione dell’Invernizzi, continua con quella della Galbani e della Locatelli e poi nel 2011 con la Parmalat ed infine con l’acquisizione del Consorzio Cooperativo Latterie Friulane. A ciò si aggiunge la strana storia della Centrale del Latte di Roma, che vede coinvolta la multinazionale francese Lactalis. Nel marzo del 2010 una Sentenza del Consiglio di Stato ha dichiarato la nullità della vendita della Centrale del Latte di Roma a Cirio da parte del Comune di Roma e tutti gli atti conseguenti, compresa la successiva vendita a Parmalat, pertanto le azioni della Centrale del Latte sono ritornate al Comune di Roma, il quale però, dopo cinque anni, non ha ancora avviato le procedure di recupero delle proprie azioni. Intanto il progetto per il recupero della Centrale è chiaro: prevede un ruolo di partecipazione diretto degli allevatori nelle scelte che riguardano l’azienda.
La fine delle quote latte
Il regime delle quote latte è terminato lo scorso 31 marzo, ma rischiano di arrivare nuove multe per il superamento da parte dell’Italia del proprio livello quantitativo di produzione assegnato dall’Unione Europea, dopo quattro anni in cui nessuna multa è stata dovuta dagli allevatori italiani. La questione è iniziata nel 1983 con l’assegnazione ad ogni Stato membro dell’Unione di una quota nazionale che poi doveva essere divisa tra i propri produttori. All’Italia fu assegnata una quota molto inferiore al consumo interno di latte. Con la fine del regime delle quote latte e la sostanziale liberalizzazione della produzione è prevedibile un aumento della produzione lattiera italiana e comunitaria che potrebbe aumentare del 5%, secondo le stime della Coldiretti.
Tuttavia sul groppone del nostro Paese sono rimaste multe per 1,3 miliardi a cui ha fatto fronte lo Stato che ora dovrà recuperare gli importi dagli allevatori per evitare un’altra procedura di infrazione. All’italiano medio l’espressione quote latte fa venire in mente il provvedimento del 2009, emanato dal governo Berlusconi su forte pressing della Lega per rateizzare i pagamenti e dare un po’ di respiro al comparto. In realtà, come per altre situazioni, al centrodestra è toccato metterci la faccia, ma anche il centrosinistra prende voti dagli allevatori e, a parte l’europeista di ferro Romano Prodi, nessun esecutivo ha mai spinto sull’acceleratore.
Il sistema delle quote latte era stato studiato per evitare che un aumento della produzione facesse flettere i prezzi ed è questo oggi il timore degli allevatori rappresentati da Coldiretti. “Occorre intervenire a livello comunitario e nazionale per preparare con strumenti adeguati un atterraggio morbido all’uscita del sistema delle quote”, ha affermato il presidente dell’associazione, Roberto Moncalvo, sottolineando la necessità che le risorse previste dal “Fondo latte di qualità” vadano agli allevatori. La preoccupazione sembra condivisa. «Le abbiamo odiate, ma con la fine delle quote latte la mia azienda perderà 25mila euro al mese. L’unica salvezza sarebbe aumentare ad almeno il 70% la quota del latte che finisce nella produzione di formaggi Dop, al momento per i produttori della cooperativa di cui faccio parte è il 40% e non basta. Certo, avremmo dovuto essere più uniti vent’anni fa, avere caseifici consortili cui destinare gran parte del latte senza dipendere dalle industrie casearie verso cui il nostro potere d’acquisto è inesistente», ha raccontato al Giorno, Franco Rinaldi, della Gallinazza di Lodivecchio, 550 vacche. A Rinaldi la sincerità non fa difetto: le responsabilità non sono sempre da una parte sola. L’Europa non ci aiuta, ma nemmeno noi ci siamo aiutati…
La risposta del governo
Ci piacerebbe che fosse il mercato a occuparsi di riequilibrare il rapporto tra domanda e offerta di latte, ma poiché tutta l’agricoltura in Europa è appesa alle mammelle della politica non si può non dare spazio alla posizione del governo. Il titolare delle Politiche agricole da più di un anno è il piddino Maurizio Martina che, pur non essendo della stessa corrente del premier Matteo Renzi, è stato scelto per il fatto di essere lombardo e, dunque, per dare alla più grande Regione d’Italia un ministero con un portafoglio importante. Non è un personaggio rumoroso ed è anche un po’ compassato, pur essendo giovane. Il che potrebbe anche essere uno svantaggio se non fosse che Martina si trova a dover chiudere un recinto quando le vacche sono già scappate (è proprio il caso di dirlo). L’Italia in Europa non è trattata bene anche in agricoltura: i fondi sono sempre meno (e vanno sempre più verso i Paesi dell’Est più svantaggiati), ma gli stanziamenti 2014-2020 sono stati decisi quando Martina era solo il segretario del Pd lombardo.
Partiamo, dunque, con l’elencare le risorse in campo e le azioni connesse. Innanzitutto la politica agricola comunitaria (PAC) prevede che l’Italia benefici di 52 miliardi di euro di contributi fino al 2020. Di questi ben 23 miliardi sono pagamenti destinati al settore agricolo e della zootecnia (allevamento e itticoltura) e, in particolare, sono stati stanziati 80 milioni di euro all’anno per l’incremento del 25% degli aiuti diretti per aziende agricole condotte da under 40. La Legge di Stabilità ha inoltre destinato 108 milioni (8 milioni nel 2015 e 50 milioni per ciascuno degli anni 2016 e 2017) per il Fondo Latte, un piccolo aiuto per le imprese che investono. Infine, il ministero ha annunciato che dall’anno prossimo partirà nelle scuole una campagna di sensibilizzazione al consumo di latte. Ovviamente, il governo non ha fatto il benché minimo cenno alla possibilità di eliminare l’Imu agricola che incide per 260 milioni di euro sul comparto. Insomma, la solita partita di giro: lo Stato toglie con una mano per mezzo dei Comuni con l’Imu e redistribuisce per mezzo di detrazioni (sulla stessa Imu) e del Fondo Latte. Un meccanismo cervellotico (ma non è il solo) per giustificare l’intermediazione della politica.
Sollevano qualche dubbio, tuttavia, le dichiarazioni rilasciate dallo stesso Martina in una recente intervista. «Dobbiamo presidiare e aumentare la consapevolezza sull’origine dei nostri prodotti perché questo è un forte elemento di competitività su scala internazionale, poi però non bisogna dimenticare che siamo un Paese di trasformatori e che questo ha un valore, è uno dei nostri tratti fondamentali, quindi noi dobbiamo tenere insieme questi due lati, fare squadra», ha affermato. Insomma, secondo il ministro, il latte made in Italy si può difendere fino a un determinato limite. Poi, scattano le economie di scala e, poiché gli italiani sono specializzati nella trasformazione, meglio valorizzare le attività che possono fornire margini di redditività più elevati. Sembra la naturale prosecuzione dei teoremi di Oscar Farinetti, il creatore di Eataly (del quale prossimamente vi parleremo), secondo cui il prodotto agroalimentare italiano – che sia una carota o una mozzarella – o lo si vende a un prezzo premium o lo si lascia perdere. Abbiamo semplificato, ma il senso del Farinetti-pensiero è più o meno questo. E, soprattutto, Martina sembra intenzionato al lasciar perdere.
Non è un caso che il presidente di Confeuro, Rocco Tiso, abbia criticato «la mancanza di un processo di transizione tra un meccanismo e l’altro» che tenesse conto del drastico calo del numero delle stalle italiane, della forte concorrenza internazionale di altre agricolture e della considerevole distanza tra i costi di produzione del latte italiano e quelli di altri paesi dell’Est europeo.
La difesa dell’italianità
Questo non vuol dire che al ministero non si siano mesi in movimento. Dietro il pungolo della filiera lattiero-casearia Martina si è fatto promotore di un logo che certifica la produzione al 100% italiana del nostro latte e dei nostri formaggi. L’Alleanza delle Cooperative (LegaCoop, Confcooperative, Agci) ha aderito dichiarandosi «pronta a lanciare la costituzione della prima AOP (Associazione di organizzazione di produttori) lattiero-casearia nazionale che aggregherà in una prima fase il 10% del latte italiano per arrivare in poco tempo al 30%». Al di là dei nazionalismi, difendere il latte italiano significa difendere un sistema che, nell’anno dell’Expo, garantisce all’Italia il primato nella produzione di formaggi a denominazione di origine (Dop) che in quantità è addirittura superiore quella francese. Da questo punto di vista il presidente di Coldiretti, Roberto Moncalvo è ancora più drastico: «Stiamo perdendo un patrimonio del nostro Paese sul quale costruire una ripresa economica sostenibile e duratura: l’invasione di materie prime estere spinge prima alla svendita agli stranieri dei nostri marchi più prestigiosi e poi alla delocalizzazione delle attività produttive».
Ogni discorso ci riporta sempre a un triste e ineluttabile punto di partenza sul quale non possiamo chiudere gli occhi. Ancorché l’Italia in ambito comunitario abbia rinunciato a produrre un quantitativo maggiore di latte del quale avrebbe beneficiato il proprio mercato interno, non si può trascurare che il settore lattiero-caseario si è «drogato» con le quote latte. Oggi che il vecchio sistema ha cessato di essere in vigore tutte le inefficienze si mostrano nella loro crudezza: produzione sottotono, scarsa produttività determinata dal basso valore aggiunto del «bene-latte», costo del lavoro elevato e pochi investimenti (non è questo il luogo per sindacare sulle dimensioni ridotte delle aziende e sulla loro minore o maggiore propensione a investire). Tutto questo scenario è aggravato dalla fissità del cambio che premia i Paesi dell’Est che hanno un costo del lavoro ridottissimo e quelli come la Germania che hanno economie di scala mostruose e tengono anch’esse forzosamente bassi i salari. È lo scenario dell’Italia rappresentata dal Documento di Economia e Finanza. E, come sempre, ci guardiamo bene dal dire: «Piove, governo ladro!». Però, mai che si abbia a disposizione un ombrello quando ce n’è bisogno…
Wall & Street