Scuola 07

«È come se ci fosse stata inflitta una punizione». Concettina Attardo, maestra agrigentina di 50 anni, non ha preso il bene il fatto di essere stata trasferita a Torino da un algoritmo del ministero dell’Istruzione. Colpa, secondo lei, de «la buona scuola» del governo Renzi che ha speso, sì, 3 miliardi per stabilizzare i precari dell’istruzione, ma li ha «deportati» (la Cgil ha parlato biblicamente di «esodo») assegnandoli laddove vi fossero delle vacanze (sedi peraltro indicate dagli stessi stabilizzandi). Lunedì sul Giornale vi abbiamo raccontato questa storia, collegando le proteste dei circa 50mila insegnanti, che accusano il ministero di averli impropriamente sottratti al luogo di residenza (favorendo, al contrario, i vincitori di concorso che, inizialmente assegnati a cattedre fuori sede, hanno potuto ritornare a casa nell’ambito della riorganizzazione), al «prodotto» del loro lavoro. Un raccolto scarso, si potrebbe dire. Ecco, oggi su Wall & Street, vogliamo mostrarvi per dati e per immagini quello che abbiamo scritto sulla versione cartacea del quotidiano.

 

Scuola-08Partiamo quindi dai test PISA risalenti al 2012, che hanno evidenziato  come gli studenti italiani siano rimasti agli ultimi posti delle classifiche Ocse. Le competenze dei 15enni italiani in matematica si situano leggermente, ma significativamente, al di sotto della media (485 punti a fronte dei 494). Fra i paesi Ocse, ottengono un punteggio inferiore all’Italia solo Svezia, Ungheria, Israele, Grecia, Cile e Messico. Il differenziale negativo evidenziato dagli studenti italiani è marcato in particolare nella sottoscala relativa all’«interpretare gli strumenti matematici», che misura la capacità di riflettere su soluzioni, risultati o conclusioni matematiche e di interpretarle nel contesto di problemi reali.

 

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Non va certo meglio per la lettura (il grafico è riportato qui sopra) e per le scienze: i valori dell’Italia rispettivamente di 490 e 494 (a fronte di valori medi Ocse rispettivamente pari a 496 e 499). Fra i Paesi Ocse, ottengono un punteggio inferiore all’Italia solo Cile, Grecia, Islanda e Messico, per la Lettura, vi si aggiunge Israele nelle Scienze. L’insegnante italiano medio «produce» inoltre un tasso di abbandono scolastico da Terzo Mondo.

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Il tasso di abbandono scolastico è del 17% (a fronte di una media Ocse del 10% circa), un dato che come vedete qui sopra si riflette nella composizione della forza lavoro con quasi il 40% della popolazione tra 25 e 62 anni che non ha completato gli studi secondari, cioè che non ha conseguito il diploma di maturità. Non c’è da meravigliarsi che in Italia i laureati siano solo il 22% (39% la media Ocse).

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Il forte abbandono scolastico dopo le medie non è tutta colpa dei docenti. Essi sono laureati, ma a quanto ci dicono le statistiche le lauree in Italia hanno un contenuto formativo di non alto livello. Il grafico sopra riporta come il nostro Paese si inquadri nel contesto internazionale in relazione a capacità di lettura e di scrittura (literacy) dei laureati, secondo i risultati del programma di autovalutazione PIAAC 2012 dell’Ocse. Non è una sorpresa: secondo il test, l’Italia ha la maggior quota di adulti (42,3%) a livello 2 di literacy, cioè quasi la metà degli adulti italiani ha solo le competenze di base per leggere, scrivere e interrelazionarsi nella società contemporanea. Insomma, sono i pessimi insegnanti a causare pessimi laureati che, a loro volta, divengono pessimi insegnanti peggiorando la qualità del sistema educativo e, dunque, della forza lavoro.

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Il grafico sopra mostra la distribuzione tra persone che hanno competenze superiori alla mansione che svolgono (overskilling) e quelle che invece ne hanno una inferiore (underskilling). Il fatto di ritenersi overskilling è normale, quasi razionale, perché l’operaio o la cassiera pensano di meritare un impiego corrispondente al livello di studio, soprattutto se sono diplomati. Ebbene l’Italia spicca in cima alla classifica degli underskilling perché le vacanze nei posti di lavoro si coprono con persone che in realtà non ne avrebbero titolo.

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Il grafico sopra, invece, spiega cosa succederebbe alle nostre aziende se le carenze di competenze fossero colmate. Avremmo il maggior recupero di produttività tra i Paesi industrializzati, leggermente superiore al 10 per cento. Il problema, dunque, riguarda la formazione. Da un lato, l’Ocse (ma anche il ministero dell’Economia) vede la forza lavoro italiana come educata a processi produttivi del secolo scorso nei quali le competenze individuali avevano un peso, tutto sommato, relativo: grande e piccola industria si reggevano su una manodopera poco qualificata. Oggi, invece, al di là della crisi del comparto industriale, nelle stesse aziende – e ce lo ha illustrato ottimamente Angelo Pasquarella con i suoi interventi – si passa sempre più dal modello del task working (il dipendente che svolge unicamente le proprie mansioni) al knowledge working (il lavoratore con il suo bagaglio di competenze che vengono sfruttate a 360°). Per spiegarlo ancora meglio, questo significa che o il lavoratore ha competenze che lo rendono insostituibile nello svolgimento di una mansione (l’esempio più comune è l’esperto del tornio meccanico che produce componenti di precisione da montare sulle automobili) oppure ha un bagaglio esperienziale e formativo che gli consente di impiegarsi in situazioni differenti. L’operaio che monta il fanale sull’automobile è destinato progressivamente a scomparire e, senza una preparazione adeguata, a restare disoccupato. Ecco perché la scuola e i docenti sono chiamati in causa.

 

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L’obiezione all’argomento che abbiamo appena affrontato è sempre la medesima. «In Italia si spende poco per il capitolo istruzione. Lo dicono tutti gli organismi internazionali!». Effettivamente a guardare il report Ocse del 2015 relativo al 2014 anche in spesa per l’istruzione in percentuale del Pil l’Italia è sotto la media (raggiunge a stento il 3% a fronte di un 3,7% medio). E anche l’Eurostat ci ha bastonato all’inizio di quest’anno.

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Come si può ben vedere l’Italia nel 2014 si è classificata al sestultimo posto nell’Unione Europea per spesa in istruzione e formazione. Essa rappresenta il 4,3% del Pil. Solo Slovacchia, Germania, Grecia, Bulgaria e Romania spendono in percentuale meno dell’Italia. Germania?! Ma come?! I tedeschi sono sempre i primi della classe, i maestrini che ci ordinano di fare i compiti a casa e poi destinano una quota leggermente inferiore di Pil alla formazione e all’istruzione che sono alla base di un ottimo sistema produttivo. Evidentemente, i soldi che investono se li fanno bastare visto che nelle prove PISA ottengono sempre buoni risultati anche se non sono in testa e che la loro forza lavoro è in maggioranza overskilling.  Anticipiamo solo un momento un discorso che svilupperemo a breve: la Germania nel 2014 ha totalizzato un Pil a valori correnti di 2.915 miliardi di euro, quasi il doppio dell’Italia (che ogni anno cerca di difendere quota 1.600 miliardi). Capirete bene che il 4,1/4,2% di Pil speso dalla Germania in istruzione equivalga a circa 120 miliardi di euro. Ma restiamo ai fatti di casa nostra: la spesa pubblica in Italia nel 2014 è stata pari al 51,3% del Pil, ossia più di metà di tutto quello che noi produciamo sotto forma di beni e servizi viene intermediato dallo Stato. Per non annoiarvi troppo con i numeri possiamo dire che pensioni (17,7%) e sanità (9,2%) hanno un peso rilevante e portano via più della metà della spesa pubblica. Non siamo un Paese per giovani, ma questo lo sapevamo già.

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Nel campo dell’istruzione e della formazione non è detto che più spende meno spenda. Questo grafico che compara spesa media cumulata per alunno dai 6 ai 15 anni con i risultati del test di lettura PISA 2009 evidenzia come l’Italia abbia ottenuto risultati migliori di Austria e Lussemburgo che spendono molto più noi e che non sia andata poi tanto peggio di Danimarca, Gran Bretagna e Stati Uniti che hanno registrato una spesa molto maggiore. Corea, Giappone, Germania e Australia, invece, hanno investito meno su ogni singolo alunno ma hanno ottenuto risultati migliori dell’Italia ai test. Insomma, come in ogni attività umana, ciò che conta non è solo la quantità ma anche la qualità.

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Quello che vedete sopra è il capitolo di spesa per la missione «Istruzione Scolastica» estrapolato dallo Stato di previsione 2016 del ministero dell’Istruzione, pubblicato dalla Ragioneria generale dello Stato. Come detto poc’anzi, questa è la fetta più grande di quel 4,3% di Pil che più o meno lo Stato spende ogni anno per la scuola: nel 2016 equivale a 43,5 miliardi di euro. E, se rapportati ai risultati dei test PISA e PIAAC, sono addirittura troppi. Ma come vengono spesi questi nostri denari che il Tesoro preleva dalle nostre tasse?

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Ci siamo presi la briga di esaminare le dotazioni organiche del ministero relativamente a questo capitolo e abbiamo considerato l’insieme dei presidi e dei docenti e del personale tecnico sia tempo indeterminato che a contratto. Il risultato ci sorprende ogni volta: 29,447 miliardi (il 67,67% del totale) sono dedicati agli stipendi. L’organico è costituito da 1.033.429 persone che in media guadagnano 28.495,26 euro annui lordi. Le maestre e i professori di scuola media e di liceo hanno retribuzioni leggermente superiori alla media: 29mila, 30mila e 32mila euro rispettivamente. Non sono redditi elevatissimi comunque, ma restituiscono l’idea che la scuola sia un enorme «stipendificio» nel quale non si comprende chi abbia meriti e chi non li abbia.

Poiché ogni anno spendiamo 29,5 miliardi circa per pagare un sistema di istruzione che l’Ocse valuta come scadente, è giusto sostenere che le lamentele di chi si sente «deportato» solo perché il suo datore di lavoro, cioè lo Stato, ritiene di ricollocarlo altrove, sono del tutto ingiustificate.

Wall & Street

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