Condivido un’intervista al Professor Ariberto Fassati, MD PhD della Division of Infection & Immunity, School of Medical Sciences, University College London.

Professore, lei è virologo e ricercatore, ci chiarisce quale è la differenza tra il sequenziamento e l’isolamento di un virus?  E quando il Sars-Cov-2 è stato isolato?

“Negli ultimi anni la procedura di isolamento di un virus è cambiata. Prima lo si isolava solo fisicamente, oggi l’identificazione avviene soprattutto in base al sequenziamento. Questa tecnica è diventata molto sofisticata: il genoma viene recuperato in frammenti. Ogni frammento è sequenziato diverse volte, talvolta addirittura 50 o 60, in altre situazioni un numero inferiore, in questo modo si raggiunge un’adeguata profondità di sequenziamento. Poi si fa una sorta di ‘taglia e cuci’ e, in base ad algoritmi particolari, si allineano i frammenti fra di loro, come se questi fossero tegole o pezzi di puzzle, si riconosce quello che viene prima e quello che viene dopo, i frammenti sono di diversa lunghezza, ciascuno può contenere decine di nucleotidi.

Due lavori cinesi apparsi su Nature in febbraio (A new coronavirus associated with human respiratory disease in China e A pneumonia outbreak associated with a new coronavirus of probable bat origin) hanno mostrato la completezza di tutti i nucleotidi, più o meno 30mila, queste sequenze sono state confermate da diversi laboratori al mondo, anche italiani. In tutto oggi si contano 70mila sequenze depositate che arrivano da diversi laboratori del globo. È l’analisi periodica delle sequenze che permette di stabilire se il virus è mutato nei mesi”.

Quindi il Sars-Cov-2 non è stato isolato fisicamente?

“Sì lo è stato (ed è riportato su Nature). Perché, per quanto raffinata, una sequenza non basta, occorre provare che un virus esista davvero, perciò anche oggi è importante non accontentarsi di analizzarne i frammenti ma isolarlo anche fisicamente (si usa una procedura standard), il gruppo cinese ha estratto il virus dal lavaggio bronchiale di un malato, lo ha poi coltivato in laboratorio su colture di cellule sane e ha constatato che il virus è cresciuto. Non solo: è stato visto che anche il genoma assemblato con le varie sequenze di laboratorio infetta le cellule come il virus naturale. In altre parole, il virus artificiale si comporta – in laboratorio – come quello naturale sugli uomini”.

In Italia la malattia Covid 19 è cambiata nei mesi, vuol dire che anche il virus è cambiato?

“Il professor Alberto Zangrillo, anestesista e rianimatore del San Raffaele, ha suggerito, sulla base dei suoi dati e della sua esperienza, che la malattia è meno aggressiva rispetto agli esordi (fenomeno che appare anche dai dati delle terapie intensive degli altri ospedali).

Tuttavia dai sequenziamenti recenti non si sono visti cambiamenti tali da dedurre che il Sars-Cov-2 sia mutato in modo tale da cambiarne la natura patogenica in modo stabile. In laboratorio appare lo stesso virus di prima ma la malattia si manifesta in maniera diversa. Va considerato però che, con con il Sars-Cov-2 , prevalgono ancora le incognite, perciò non possiamo escludere che questo sia mutato”.

È vero che i virus che fanno il salto di specie sono più virulenti quando si presentano la prima volta e poi diventano sempre meno aggressivi?

“Dipende da virus a virus: in certi casi, con i passaggi sull’uomo, diventano meno virulenti, in altri no. C’è stato un coronavirus che alla fine del 1800 ha provocato un’epidemia di polmoniti piuttosto grave e poi è diventato meno aggressivo. Poi ci sono altri coronavirus che scatenano solo raffreddori. Tuttavia l’HIV che ha fatto il salto di specie dai primati, ed è considerato abbastanza ‘giovane’, ha sempre le stesse caratteristiche, è aggressivo come prima”.

Esiste uno studio, o più studi, sulle persone che hanno contratto il virus e non hanno manifestato malattia o l’hanno avuta in maniera leggera per capire cosa ci sia di diverso in chi non si ammala? Si conoscono oggi i fattori protettivi?

“Certamente la grande sfida è capire come mai nella maggior parte delle persone questo virus provochi solo sintomi leggeri e solo un 10-20% si ammali gravemente. Il perché succeda non l’abbiamo ancora capito bene. Abbiamo visto che diabete, ipertensione, cardiopatia ed età avanzata contribuiscono all’aggravarsi della malattia e, nello stesso tempo, constatato che si tratta di un’infezione che colpisce molti organi, non solo i polmoni. C’è stato un contributo importante da parte degli studiosi italiani: grazie alle autopsie si è capito che il virus provoca una coagulazione incontrollata del sangue”.

Come mai ci dobbiamo preoccupare se aumenta il numero delle persone positive? La mia domanda è: aumentano i positivi perché si fanno più tamponi qua e là o i tamponi si fanno seguendo un criterio di osservazione rappresentativa (su un certo tipo di popolazione e ripetuti nel tempo)?

“In genere se aumenta il numero dei positivi dopo qualche settimana si hanno anche più malati gravi. Recentemente in Usa si è verificato questo. Sicuramente in Italia l’Istituto Superiore di Sanità ha condotto studi a campione per capire in quale percentuale gli italiani sono positivi” (abbiamo chiesto all’ISS e ci è stato detto che non sono stati fatti studi di questo tipo).

È stato utile il lockdown? Si può considerare il lockdown un mezzo utile a contenere i contagi fra malati? Abbiamo osservato che in Svezia dove è stato fatto un lockdown ridotto, aperte le scuole e i locali, in proporzione (hanno un sesto degli abitanti rispetto a noi) si sono avuti quasi gli stessi morti che in Italia (568 per milione contro 581). E in tutto l’affollato Giappone (nessun lockdown) solo mille morti.

“In effetti non ci spieghiamo come mai tanti morti in Italia. Un fattore potrebbe essere la densità di popolazione perché un’alta densità abitativa facilita i contatti fra persone e la trasmissione del virus. Vero è che in Svezia, a parte Stoccolma, la densità di popolazione è ben diversa da quella italiana, 25 abitanti per km2 contro i 206 per km2 in Italia e 420 per km2 in Lombardia Nella vicina Norvegia è di 15 per km2 e si sono avuti solo 255 morti (47 per milione) facendo il lockdown.

In effetti la situazione giapponese è inspiegabile: hanno un’alta densità abitativa (347km2) di poco inferiore alla Lombardia, e una popolazione molto anziana. Il Giappone assieme alla Corea del Sud e a Hong Kong ha avuto relativamente pochi morti. Non ho una spiegazione definitiva ma posso proporre alcune ipotesi tra cui questa: sono popolazioni attente all’igiene e osservano la disciplina in maniera scrupolosa, indossano guanti, mascherine e rispettano il distanziamento sociale...”.

A essere efficace potrebbe essere stata la disciplina più del lockdown?

“È probabile. Abbiamo visto, poi, che il lockdown è stata un’esperienza devastante, che distrugge l’economia e innalza il numero dei morti perché la gente non va più in ospedale. Dobbiamo cercare di fare di tutto per evitarlo in futuro e prendere ad esempio le popolazioni che hanno contenuto i contagi proprio con la disciplina. Oggi sono sono impressionato in maniera favorevole dai numeri in Italia e vorrei che il mio Paese andasse avanti così, riaprendo le scuole e le attività. Incoraggio tutti a stare attenti, lavarsi spesso le mani, rispettare le distanze, ventilare i locali, evitare i luoghi affollati, indossare la mascherina in luoghi pubblici e monitorare la situazione”.

Il vaccino “brucerà le tappe” (anzi, le sta già bruciando): per poterlo avere in tempi brevi si sono saltati alcuni passaggi che riguardano la sicurezza e l’efficacia, cosa ne pensa?

“Più che ‘bruciare’ le tappe, queste sono ‘condensate’. In situazioni normali, le fasi sono 4: pre-clinica, fase I, fase II e fase III (efficiacia sul campo) e ognuna comincia dopo che la precedente è stata completata, e se i criteri di sicurezza e efficacia sono stati raggiunti. In questa situazione di emergenza, non si aspetta il completamento di ogni fase ma si comincia una nuova fase non appena certi criteri di efficacia e sicurezza sono stati verificati nella precedente. Questo però significa che alcune informazioni della fase I saranno conosciute mentre la fase II e la fase III sono in corso. Così vale per la fase II e così via. Alla fine, le informazioni arriveranno quasi tutte insieme e le agenzie pubbliche dovranno valutare con attenzione tutti questi dati per stabilire se il vaccino è sicuro ed efficace. È un approccio nuovo, che richiede di accettare un certo rischio per chi produce il vaccino (tutti gli investimenti per la fase I, II e III vengono fatti in breve tempo e la risposta si sa solo alla fine), e ha qualche limite perché all’inizio non sapremo se ci sarà qualche effetto indesiderato più a lungo termine e se la protezione offerta dal vaccino durerà a lungo. Va tenuto presente che il vaccino, quando sarà approvato, verrà’ prima di tutto proposto a gruppi di persone a più alto rischio di morte per COVID-19”

Alcuni vaccini in preparazione prevedono una tecnologia nuova, non avranno le caratteristiche di quelli usati finora. Ad esempio si parla di vaccino a Rna, di tatuaggio o nanochip, cosa ne pensa?

“Ci sono più di 100 vaccini in via di sperimentazione, più o meno avanzata, 26 dei quali sono in sperimentazione clinica sui volontari.Tra questi vaccini in via di sperimentazione, ci sono dei ‘classici’ come il virus inattivato, e dei ‘nuovi’ come quelli basati sullo RNA e sul DNA. I risultati pubblicati ad oggi indicano che tutti e tre questi approcci sono promettenti, nel senso che inducono una forte risposta immunitaria al coronavirus. Però, ciascuno di essi è un po’ diverso: alcuni sembrano stimolare più gli anticorpi, altri stimolano un po’ meno gli anticorpi ma attivano anche le cellule T o linfociti. Quindi è possibile che, sul campo, diversi vaccini abbiano una efficacia diversa, offrano un grado di protezione diversa e probabilmente una diversa durata di protezione. Non si può sapere ora quale di questi vaccini sarà il migliore, ma penso che più di un vaccino potrebbe essere approvato e potrebbe accadere che paesi diversi useranno vaccini diversi a seconda della disponibilità e del costo. Potremmo allora fare dei confronti basati sui dati a disposizione. Detto questo, se i vaccini di tipo “nuovo” dimostrassero efficacia sul campo (fase III) e venissero approvati, avremmo a disposizione una nuova piattaforma di produzione, molto più rapida e flessibile della “classica” che ci consentirebbe nel futuro di rispondere a possibili nuove pandemie in maniera piu’ efficace”.

Condivido con voi anche la testimonianza dell’amica e collega Marta, che ha vissuto la malattia della sua mamma e del suo fidanzato, che ha provato paura, ansia e solitudine e subito la conseguenza disumanizzante del distacco dai propri cari. Per fortuna le malattie dei familiari di Marta si sono risolte senza straschichi. Il pensiero vola ad altri amici e colleghi non altrettanto fortunati, ai loro genitori ricoverati nelle RSA, a quanti hanno restituito il loro ultimo respiro in solitudine, senza una carezza.

Un detto giapponese recita:

 “L’uomo deve morire in bellezza come le foglie del ciliegio in autunno”.

La mia esperienza, di Marta Calcagno Baldini.

Ho scritto una tabella, “Cronologia Corona”. Riassume tutti i fatti accaduti, alla mia famiglia e a me, dal 29 febbraio al 24 giugno, ossia dalla data del possibile contagio al risultato negativo del mio tampone. In mezzo ci sono due ricoveri, Flavia mia madre e Giacomo, il mio fidanzato, e giorni miei in quarantena a casa con l’ansia di non riuscire a respirare. Passati a chiamare a vuoto il numero verde coronavirus in Lombardia (“ha avuto contatti con positivi?” “sì”, “e con cinesi” “no”, “sente sintomi tipici del virus?” “respiro affannoso, in certi momenti sembra mi manchi l’aria” “ha febbre?” “no” “allora mi dispiace non possiamo fare qualcosa”). Aspettando che l’Ats mi convocasse per l’esame sierologico o il tampone. Tra impegnative inutili per esami del sangue comuni per verificare i valori IgG e IgM (ho poi scoperto che c’e’ un esame specifico per questi valori, il sierologico. Non basta un esame del sangue! Ancora maledico la dottoressa, amica di amici, che mi ha mandato a fare questo test ben 2 volte, esponendo me e gli altri ad un ulteriore rischio).

Tutto inizia la sera del 29 febbraio in Franciacorta, in provincia di Brescia, area che si e’ poi rivelata una zona rossa quanto Bergamo o quasi. Era una cena con una decina di persone, tutte a tavola per qualche ora, tutte vicine, si è parlato anche del virus. Sembrava una questione lontana anche se grave, che si sarebbe risolta in fretta nonostante le povere vittime che stava già iniziando a mietere. E poi, due giorni dopo, il 2 marzo, mia madre Flavia non si sente tanto bene. Sembra un’influenza stagionale. Arrivano notizie anche dagli altri invitati alla cena: anche loro a letto con la febbre. Giacomo ed io ci sentiamo in salute. Sempre il 2 marzo andiamo a Milano. Il 5 marzo usciamo a cena con un’altra coppia di amici. Passano due giorni da questa serata, e tutti e quattro non stiamo bene. In particolare Giacomo, che si ammala, ha 37 di febbre.  Tra telefonate alla croce rossa a vuoto e non, passa un’altra settimana: uno degli invitati alla cena in Franciacorta è ricoverato per coronavirus, mia madre viene portata all’Ospedale San Matteo di Pavia e il mio fidanzato al Fatebenefratelli di Erba, dove lo accompagno io in auto (indossando entrambi la mascherina). Siamo al 14 marzo: in questo provvidenziale istituto avevano appena acquistato due macchine per la respirazione C-pap (e lo scopre mio cugino online appena conosciute le condizioni di Giacomo). Flavia, meno grave, il 19 marzo torna a casa e, fuori pericolo, ne fa tre di quarantena (ma la chiamano per fare il tampone solo il 24 giugno!). Lui, invece, non viene intubato, ma gli viene applicato il “Continuous Positive Air Pressure”, il casco trasparente che infonde continuamente aria aiutando lo scambio di ossigeno nei polmoni. Inizialmente, tutta la prima settimana, Giacomo stava sotto il casco Cpap quasi 24 ore su 24, escluso solo il momento dei pasti. Dalla seconda solo di giorno, e nella terza indossava esclusivamente la mascherina Venturi, che copre naso e bocca. Era in camera con un altro malato: dopo i primi giorni difficili, in cui entrambi stavano sdraiati a pancia in giù per favorire l’ossigenazione ai polmoni e indossando il casco, quando poterono almeno stare seduti sul letto cominciarono pian piano a fare amicizia. Il che ha alleviato decisamente il senso di isolamento dal mondo che, da malati Covid, hanno comunque sperimentato. Medici e infermieri entrano in camera completamente rivestiti: tuta, doppi guanti, mascherina, visiera e cappuccio. Irriconoscibili, a parte che per il nome scritto a pennarello direttamente sulla divisa quasi da astronauta. Ogni contatto diretto con amici e parenti è rigorosamente vietato.

Dopo aver accompagnato Giacomo in ospedale, sto 3 settimane in quarantena come mi hanno intimato di fare i medici di Erba. La giusta raccomandazione non è arrivata subito, ma la sera, quando mi hanno rivisto in sala d’aspetto dove ero tornata per portare a Giacomo i giornali e i caricabatterie per i cellulari che avevo acquistato in un vicino centro commerciale. Mi ero gia’ infatti prenotata un albergo nei dintorni per essere presente i primi giorni e vedere come si sarebbe evoluta la situazione. Una dottoressa mi ha, però, riconosciuta in sala d’attesa (nessuno può accedere alle camere: si lasciano gli oggetti per i malati agli infermieri che glieli consegnano): “Se lei e’ stata a contatto con un covid positivo deve tornare subito a casa e mettersi in quarantena”. E cosi’, in ansia, chiamo mia sorella Roberta che in piena sera (erano le 21) parte da Milano per venirmi a prendere a Erba e scortarmi di nuovo a casa (io ero arrivata guidando l’auto di Giacomo).

Vicinanza è una parola pericolosa, quando si parla di Coronavirus. Eppure l’affetto dei famigliari e le loro azioni di sostegno in certi momenti sono l’unica cosa che aiuta davvero ad avere la forza di uscire da un momento di solitudine necessaria e completa. Questo viaggio con due auto è stato fondamentale, e poi, nelle settimane a casa, whatsapp è diventato il mio fedele compagno: comunico con Giacomo quando riesce a scrivere perché gli tolgono il casco nelle ore dei pasti (per vari giorni la sua voce è flebile, non ha le energie per parlare al telefono), con mia madre, con parenti e amici per informare tutti dello stato dei due . Parlo anche telefonicamente con i dottori di Erba, che una volta a settimana mi chiamano, e poi ripeto ad amici e famigliari di Giacomo ciò che mi hanno riferito. Il mio cellulare diventa un centralino.

Riguardo me, sento spesso mio zio medico chirurgo e mio cugino virologo, che mi ascoltano con grande pazienza e disponibilità, dandomi consigli e indicazioni. Respiro affannosamente, sarà per ansia o per il virus? Contatto anche ripetutamente il numero verde Covid e il mio medico della mutua: non avendo sintomi gravi ogni volta mi ripetono che posso solo aspettare. Cosa? Di aggravarmi? Non vengono a farmi il tampone perché hanno troppi casi gravi da seguire e non posso uscire di casa nel dubbio che sia positiva. Grazie alle mie due sorelle riesco ad avere la spesa e un grande aiuto psicologico in allegria: tutte le mattine Marina viene a trovarmi con il piccolo Umberto, suo primo figlio, in passeggino, e ci parliamo dalla finestra al cortile. Mi lascia i giornali sotto al portone e riparte. La solitudine nell’indigenza Covid è necessaria, ma motivo di grande ansia e tristezza. Per chi è a casa in isolamento, come me, e per chi è in ospedale ancora di più. Ecco che Roberta con grande generosità si offre e porta più volte provviste di cibo, lettere e letture a Giacomo che io e gli amici a turno prepariamo.

Il 30 marzo finisce la mia quarantena, senza sapere se ho fatto il virus e se ne sono guarita. Però posso uscire di casa, anche se è quasi inutile in quei giorni: Milano sembra sotto assedio, pochissime attività aperte e ancora meno persone per strada. Mi serve giusto per evitare alle mie sorelle di dovermi procurare cibo e favori vari.

Giacomo viene dimesso l’11 aprile, quasi un mese dopo, e deve stare tre settimane in quarantena. Per fortuna posso continuare a uscire, anche se, nel rispetto di tutti, devo evitare ogni contatto possibile con lui. A questo punto inizia la lunga attesa del suo tampone, che si prolunga fino all’11 maggio, quasi due settimane dopo la fine della quarantena obbligatoria a casa (che sarebbe terminata il 2 maggio). Dal 15 maggio, dopo il secondo tampone, via mail arriva il documento che dichiara Giacomo immune al coronavirus. A casa, in quelle settimane, il tempo passava a disinfettare il disinfettabile, dato che, quando Giacomo è tornato, dovevamo dormire in stanze separate e lui doveva stare in isolamento anche se il bagno era uno (in camera sua, prima del suo arrivo, avevo portato alcol e varie spugne, oltre a mascherine, guanti e cambi di vestiario. Ogni volta che lui andava in bagno apriva la finestra e dopo disinfettava, con mascherina, tutte le superfici che usava. Io per sicurezza ripetevo l’operazione prima di usare io il bagno e dopo). Bisognava lasciare il cibo davanti alla porta della sua stanza, preparato su piatti di carta da buttare dopo l’uso nella raccolta indifferenziata. Mascherine indossate h24 anche in casa, cambiate quotidianamente e anche più volte al giorno.

Per quanto riguarda me, a metà maggio ancora non ero riuscita a sapere se anche io avevo o avevo o avevo avuto il virus, magari con sintomi lievi, dato che mai ero stata esaminata nonostante le ripetute telefonate. Decido di fare il test sierologico da privata, almeno per sapere se ho gli anticorpi: il 18 maggio arriva a casa il medico, e risulto positiva agli anticorpi IgG, ovvero quelli che rimangono dopo aver avuto il virus. Ripensando a tutte le telefonate che ho fatto al numero verde e di quante volte sono stata messa da parte, ripensando all’attesa della chiamata dell’Ats per aver un tampone, la mente va a tutti i positivi lievi come me che magari, non avendo due positivi con sintomi forti in ospedale, non hanno avuto la quarantena obbligatoria e sono stati in mezzo agli altri, aumentando i contagi. La lentezza e la superficialità sono state fatali. Finalmente, il 24 giugno, giugno l’Ats mi chiama per il tampone, che faccio due volte: negativo.

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