Dario Fo, giullare a corte
Dario Fo, Premio Nobel per la Letteratura. Già questo basta a segnare in profondità la fiacchezza di un tempo come il nostro; a definirlo fin nel suo più piccolo anfratto. Ero rimasto alla letteratura russa, ai Pirandello, agli Ungaretti e invece, in età matura, tocca sopportare lunghi peana nei confronti dei Camilleri e dei Dario Fo. Poi è arrivato anche il Nobel a Bob Dylan e la mazzata finale mi è stata servita direttamente sui denti.
Eppure, se sappiamo ben interpretarli possiamo trarre giovamento da questi fatti. Sono segni della inutilità di certi idolatrati premi letterari. Servono a spegnere le illusioni di chi ancora crede nella loro affidabilità e, al contempo, convalidano un’antica tesi del sottoscritto per cui negli acquisti di libri sia utile adottare un approccio manicheo: scartare a priori quelli che hanno vinto premi e scegliere tra i restanti.
Dario Fo spentosi ieri a novant’anni, non è solo un attore ed un teatrante. È anche paradigma delle vicende pubbliche che hanno attraversato la nostra malandata Italia. Spacciatosi per giullare di corte, ha passato una vita a far finta di stare sulle barricate pronto a prendere in giro i potenti; in realtà, furbescamente antagonista in quanto oppositore avveduto e non ingenuo. Proprio come quelli del Medioevo e dei secoli successivi; giullari ma, appunto, a corte. Come nel più tipico costume italico.
Fu comunista quando imperava l’egemonia culturale dei ‘compagni’ prodigandosi anche col Soccorso Rosso. E poi grillino quando il movimento fondato da Beppe Grillo ha iniziato a conquistare città piccole e medie e a competere col PD per diventare primo partito nazionale.
Dunque, tutto nella norma. Niente di scorretto o di imprevedibile come tuonano i media con consueta premura ed affettuosità spacciandolo come rivoluzionario della penna e della parola. Assolutamente nulla di anarchico o sovversivo. Un borghese pronto ad accorrere in soccorso del vincitore come tanti. Forse come tanti di noi. Perché stare dalla parte dei comunisti significava avere una rete di protezione ampia ed articolata. Parlo ovviamente della casta rossa; di coloro i quali bazzicavano giornali, Tv di Stato, case editrici o teatri e di conseguenza non mi riferisco ai militanti, a quei contadini e operai che proiettavano in fiere e coraggiose lotte ideali il loro astio contro i democristiani. No! Parlo della casta dei comunisti d’élite, un po’ radical-chic e un po’ finti rivoluzionari a cui il potere lisciava il pelo e che erano loro stessi ‘Potere’.
Certo, vi fu la vicenda della Rai e della sua ‘cacciata’. Ma erano gli anni dei mutandoni alle soubrette in cui democristiani bigotti e ultraclericali abbondavano; e furono tanti a farne le spese, non solo lui. A pensarci bene, l’allontanamento giovò alla sua fama.
Ora, in molti si sperticheranno in prolungate celebrazioni sulla sua letteratura, quando invece quasi nessuno l’ha studiata, o almeno letta seriamente. Ed io sono uno di quelli. Ho sfogliato qualche pagina ma mi sono annoiato sin dalle prime righe. I suoi spettacoli in Tv mi facevano assopire. Non sopporto il grammelot perché quando reiterato ed espanso per ore diventa snervante. Non mi eccitava la sua comicità ed infine quelle metafore contro il potere le trovavo sempre identiche, almeno nello stile e nei profili dei personaggi.
Tuttavia non mancheranno laudatores i quali vi diranno di aver impresso nella mente ogni sua frase, ogni singola parola. Si moltiplicheranno i Vincenzo Mollica di turno, in Tv e sui giornali, e si espanderanno nell’aria nuvole di aggettivi che come oppiacei di ottima fattura ottunderanno le menti; precipiteranno piogge di consensi così abbondanti e mielose da far salire oltre il consentito la glicemia ad almeno un terzo dei nostri connazionali. Perché già so come andrà a finire nei prossimi giorni. Pochi conoscono le sue opere, tanti nemmeno i titoli, eppure avranno il coraggio di zittirci tutti, asserendo che le opere di Fo sono tradotte in tutto il mondo, studiate nelle università, lette anche in Burundi o in Guatemala. Ma non spaventatevi. Restate alla sostanza delle cose.
In fondo, è forse proprio questo il Mistero Buffo. Il mistero buffo di uno che prese posizioni sbagliate sulla vicenda del Commissario Calabresi; che prese posizione sbagliate anche sul Rogo di Primavalle dove perirono i fratelli Mattei. Il mistero di un tempo in cui uno sceglie i ‘vinti’ solo una volta nella sua vita, a sedici anni o giù di lì, fiero di quello stemma italico col fascio littorio sormontato da un’aquila, e passa poi il resto dell’esistenza a cercare di occultare quella verità, montando scuse bislacche e di vario tipo e volendo figurare come il paladino della lotta contro il
Potere.