Quando mi chiedono un parere su Roberto Saviano non posso far altro che fare una lunga premessa. Sono casertano come lui. Comprendo quale dirompente e incosciente forza abbia potuto smuovere un ragazzo poco più che ventenne nello scrivere di camorra; e perciò, non può che rimanere immutata la stima per aver messo nero su bianco fatti e nomi su vicende criminali. Percepisco le sfumature e non posso che penetrare nel dolore dei suoi familiari e suo personale, nel momento in cui la realtà ti impone con forza di cambiare vita. Di rinunciare a brandelli di libertà soltanto perché hai scritto l’indicibile.

Per esser chiari: io non ne avrei avuto la forza. Tuttavia Saviano sa anche che tanti giornalisti casertani scrivono le stesse sue cose da tempo immemorabile, lo fanno senza strombazzamenti mediatici e passano per le aule giudiziarie per raccogliere informazioni e non per difendersi da reali o presunte accuse di plagio.

Questa è però la premessa, perentoria, importante, ma pur sempre una premessa perché oramai non riesco a seguirlo più su nulla. Non riesco nemmeno a cogliere le traiettorie di ciò che scrive, a comprenderne le divagazioni, i percorsi.

Da tempo veste altri panni, quelli del guru, del giudice moralista che mette becco su tante, troppe cose, ricalcando le orme di quegli intellettuali a lui affini che passano il tempo tra Capalbio, le feste del quotidiano La Repubblica e lo studio televisivo di Fabio Fazio.

Oramai confutare una sua affermazione è operazione pericolosa al pari di una bestemmia a voce alta durante un Conclave oppure di una passeggiata col crocifisso al collo lungo le strade del Califfato.

E, si badi bene, qui nessuno vuole proibirgli di esprimersi sulle singole vicende quotidiane. Ma una cosa è scribacchiare 140caratteri su un social, altra è montare una articolessa di due pagine su Repubblica o L’Espresso sapendo che, un minuto dopo, tutti i media ne riprenderanno i contenuti amplificandoli all’ennesima potenza.

Perché Saviano, da giudice morale, sa bene come ogni sua singola affermazione, ogni velato sospiro ed ogni attacco forbito o ruvido viene scambiato per un inoppugnabile Comandamento laico.

Da giudice morale sa bene che le sue parole hanno un peso diverso da quelle di tutti quanti gli altri perché è diventato un brand commerciale prima che politico. Nessuno può infatti emettere verdetti categorici, di pari grado e con tanta solennità e nettezza su fatti di natura giuridica, politica, sulla letteratura, sui conflitti religiosi, su fenomeni sociologici e antropologici, sui dilemmi etici, sulle politiche industriali o le scelte economiche senza apparire (e perciò essere) saccente. Lui invece può farlo perché marca col fuoco del Verbo laico, progressista e illuminato ogni umana questione e perché frotte di adulatori sono pronte a genuflettersi e ad amplificarne il messaggio.

Ma sono certo che, in fondo al suo cuore, sa che non è giusto né onesto ciò che sta facendo.

Sì, è così, caro Roberto, non è onesto! Se tieni così tanto alla severità e alla limpidezza di un termine abusato come quello di ‘onestà’, sul quale ci hai giustamente costruito una carriera, innanzitutto non devi negarlo a te stesso. Non puoi emettere sentenze su ogni aneddoto, fatto, dichiarazione, delibera comunale, decreto legge, dichiarazione del Papa, di Putin o di Trump, insomma su tutto lo scibile umano, pretendendo di essere sempre nel giusto e accusando chi non la pensa come te di essere una sorta di criminale in sedicesima.

Non puoi sentenziare con parvenze da profeta del Vecchio Testamento su questioni teologiche, su fatti storici, sull’economia e su mille altre cose solo perché sei un narratore di fatti di criminalità organizzata.

Perché, in fondo, questo è il punto, lo snodo cruciale. Sei un ottimo narratore di fatti criminali. E allora dismetti l’aura da perseguitato e allo stesso tempo da eroe epico che ti hanno costruito intorno e a cui ti sei subitaneamente conformato. Lascia stare Wislawa Szymborska, Thomas Mann e Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Loro giocano un altro campionato. Fanno letteratura. Tu navighi nella cronaca e lo fai ottimamente. Ma letteratura e cronaca sono cose diverse.

Ti ho dato atto in premessa di una dose non comune di coraggio. Ma come hai visto mi son fermato lì. Non me la sento di andare oltre. Ammetterai, infatti, che perseguitati ed eroi ora siamo noi casertani. Quelli che quotidianamente vivono con terrore anche una semplice passeggiata e contemplano la loro sciagurata quotidianità che permane priva di un pur minimo briciolo di speranza. Quelli che non possono scappar via dalla Terra dei Fuochi e da Gomorra solo perché non hanno nessun’altra possibilità.

 

Cattura

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