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Non ci resta che difenderla questa penosa e malconcia democrazia. Lo dico in maniera sommessa e con quel pizzico di disagio di chi ha l’impressione che da maldestro incendiario stia precipitando nel girone dei goffi pompieri dell’ultima ora. Insomma, con quella comprensibile reticenza che prende coloro i quali, per anni, si sono abbeverati a pensatori ‘antidemocratici’ o magari rivoluzionar-conservatori e ne hanno decantato le lodi. E poi si sono sentiti appagati dal voto ai partiti antisistema e magari, dopo l’ennesima delusione, si sono rifugiati nel non-voto ritenendo che l’unica sfida al conformismo fosse l’annichilimento dell’esistente.

E tuttavia le condizioni sono cambiate. Di fronte abbiamo solo due alternative: arrendersi alla decadenza di questa flebile e malata democrazia oppure tentare, per quanto possibile, di rianimarla con tutte le nostre forze. Per ora non c’è altro da fare. Darle nuova forma e fare in modo che i così tanto decantati diritti democratici trovino piena attuazione nel quotidiano e non permangono in quell’indistinguibile limbo pronti ad essere tonificati da concetti sempre più sontuosi, apprezzabili in teoria, ma in realtà utili solo a esaltare l’eloquio dei potenti e mascherare di buone intenzioni la coscienza dei corrotti.

Perché la democrazia è mal digerita dalla classe dirigente globale. Seppure si presenta con ecumenici dettami reiterati anche con una certa frequenza, essa non trova piena ospitalità in una società che rivolge lo sguardo unicamente alla ricchezza e al profitto e dove la politica si mostra, anzi è, ancella del mercato.

Molte le cause. La globalizzazione rende per sua stessa natura esile ogni tentativo di seria politica nazionale. Ma ha poi contribuito anche la costruzione di una Europa malaticcia i cui tecnocrati hanno imposto una moneta comune quale l’euro, e perciò senza alcuna consultazione democratica tanto che negli unici Paesi dove si è votato, e cioè Danimarca e Svezia, a vincere sono stati i ‘no’.

Anche in ambito nazionale le cose non mutano. Le maggioranze parlamentari (ma, ahimè, anche le minoranze) sono solo dei centri di raccolta di decisioni che vengono prese altrove. In linea di massima non sono rappresentative di tutte le classi sociali men che meno attente a tutte le articolate problematiche di una società complessa come quella moderna.

La democrazia attuale, quella che abbiamo conosciuto dopo il 1989, ha assistito inerme al fatto che la politica progressivamente venisse messa all’angolo e offerta su un piatto d’argento la primazia all’economia, in specie finanziaria. È diventata un modello angusto, una gabbia stretta e putrida dove chi sta peggio non ha alcuna possibilità di risalire la scala sociale ma anzi è certo di regredire al livello inferiore come in un infame gioco dell’oca, o tutt’al più mantenere intatto il suo stato.

Un modello dove la precarietà non è il porto da cui far salpare la nave della propria esistenza verso una stabilità lavorativa ma punto d’approdo, disperato ormeggio finale.

Un sistema dove il lavoro viene falcidiato da legislazioni sempre pronte a restringere i diritti e a favorire i profitti e perciò una democrazia sempre più legata al censo in cui la meritocrazia è vocabolo rintracciabile solo in vecchi e polverosi dizionari.

Una democrazia che mette da parte la bellezza e la difesa e conservazione del paesaggio per far spazio a sventramenti e amenità urbanistiche. Dove le banche e i poteri finanziari quasi mai rispondono dei loro disastri.

Un sistema a senso unico dove chi tenta anche flebilmente di assumere posizioni non coincidenti con quelli della stragrande maggioranza in tema di diritti civili, viene etichettato come omofobo, razzista, intollerante, quando invece gli dovrebbe essere garantita pari dignità.

Ora, poco importa che a riprendere le redini di questo discorso interrotto, possano essere partiti populisti, leader moderati, riformisti o partiti indecifrabili e non ancora visibili all’orizzonte. In questa fase storica, per salvare noi stessi, dobbiamo difendere la democrazia. E dobbiamo farlo ‘partecipando’ in maniera più aggressiva e compiuta. L’errore fondamentale fatto finora è  il ritenere le elezioni l’unico momento di partecipazione democratica. Dobbiamo invece pretendere che i suoi teoremi siano applicati e non solo declamanti come suadenti poesie da dolce stilnovo.

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