Eravamo convinti che, passato qualche decennio, le tracce della «guerra civile» potessero progressivamente dissolversi. Ci aspettavamo che tutto fosse prima o poi sottratto alla ossessiva politicizzazione e finalmente storicizzato. Non è stato così!

Dovevamo coglierne i primi segnali già alla fine degli anni Ottanta quando, nonostante sul tavolo vi fossero i corposi studi di De Felice (e non solo i suoi!), non si riuscì a sanare alcuna ferita. Anzi, all’alba della seconda Repubblica, si riaprirono pure quelle cicatrizzate da lungo tempo. Eppure, l’operazione defeliciana doveva essere colta al volo e poteva risultare doppiamente positiva. Innanzitutto perché depotenziava il nostalgismo dall’abituale carica mitologica entro cui si rinserrava. Riportando con serenità di giudizio e di obiettività i singoli tratti del fascismo, lo strappava dalla glorificazione postuma, in questo modo sottraendo al nostalgismo il suo fondamentale pilastro. Ma, dall’altra parte, delegittimava l’antifascismo militante perché, una volta che quell’epoca, quel fenomeno e quel regime, venivano consegnati alla storia, nessuno poteva più trarne profitto per meschine rendite di posizione e il Ventennio essere finalmente trattato alla stregua del periodo giolittiano, di quello risorgimentale, e così via.

E invece nessuno vuole abdicare alle proprie rendite anche perché un percorso di scavo nella biografia della Nazione imporrebbe l’ammissione di verità inconfutabili. Bisognerebbe ammettere che, per esempio, oltre a errori e immani tragedie (su tutte, le leggi razziali) il regime ebbe dalla sua un ampio consenso, intensificò rispetto al passato giolittiano le riforme in ambito sociale, mise in cantiere e completò molte opere.

Questa esasperante narrazione estiva che va in tutt’altra direzione, perché gravata di codici, minacce di querele e tutto l’armamentario di certo tracotante giustizialismo, ci ricorda allora che il nostro è un Paese «irrisolto», privo di un filo comune che lo affranchi dalla guerra civile permanente. E, arrivati a questo punto, ne intendiamo le non arcane ragioni.

Dalla fine della Seconda guerra mondiale si è infatti aderito al cliché dell’antifascismo militante che fa rima con tanti pelosi cascami dell’ideologia comunista e, proprio per tale motivo, tende a trasformare in inconfutabili appelli morali ogni minima diversione dalla narrazione originale.

Cova, sotto questo antifascismo, l’idea censoria e totalitaria che sempre ha animato le anime belle demo-progressiste il cui scopo inconfessato è lo stesso da una vita: fare tacere voci dissenzienti, depotenziare ogni pensiero non ortodosso fino a ritenere pericolosi anche coloro i quali ingenuamente si aggrappano a nostalgismi di maniera, al folklore, all’esibizione di qualche gingillo datato che andrebbe catalogato più nel versante della chincaglieria kitsch che sotto le mentite spoglie della pericolosa apologia …

 

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Brano tratto da “All’armi siamo (ancora?) fascisti”, il mio libricino che troverete da oggi (giovedì 26 ottobre) per 15 giorni allegato al Giornale.

Copia di FUORIDALCORO084_COVER-1

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