L’emigrazione interna nel Terzo Reich
La categoria degli intellettuali reietti ha avuto sempre una discreta fama ma picchi di notorietà solo in epoche specifiche. In Germania, subito dopo la Seconda guerra mondiale, a cucire la lettera scarlatta sul petto di molti fu Thomas Mann. I suoi anatemi contribuirono a mettere una pietra tombale su un ambiente culturale variegato e prolifico che, con difficoltà, si era mosso sotto il nazismo. Proprio colui che aveva scritto le Considerazioni di un impolitico, capolavoro da cui germinò gran parte della pubblicistica successiva, con le sue parole del dicembre 1945, marchiò ogni ulteriore e diversa esegesi: «Sarà superstizione, ma ai miei occhi dei libri che hanno comunque avuto la possibilità di uscire in Germania fra il ’33 e il ’45 sono del tutto privi di valore, e non si dovrebbe neppure prenderli in mano. Sono impregnati tutti di un certo odore di sangue e di vergogna; meglio varrebbe mandarli tutti al macero».
A uscire illesi da una scomunica di tale potenza fu solo chi emigrò per tempo. Gli altri, quelli restati in Germania, a cui si rivolgeva Mann, furono immediatamente tacciati di collaborazionismo. Per loro si parlò di “emigrazione interna” (concetto, peraltro, derivato da uno scritto di Trotsky) contrassegnando in questo modo parte di una generazione che, a conti fatti, non si era mai segnalata per eccessiva ruffianeria nei confronti del regime. Anzi, come sempre è capitato in ogni parte del pianeta, vi furono intellettuali avversi al regime, quelli facili a cedimenti e compromessi, e gli opportunisti. Vale a dire, coloro i quali scoprirono una fervente passione democratica solo in prossimità della sconfitta.
Questi dell’emigrazione interna furono però tutti tacciati di velleitarismo, sprezzantemente definiti «minor poets», e pagarono il fatto di non essere andati via. La verità era più banale e si scoprì poi che, in molti casi, non si erano mossi per motivi familiari o economici. E la scrittura aveva rappresentato un riparo, un viaggio nel bosco per difendersi dalla temperie della guerra. Ma fu anche la figurazione visiva di una tradizione letteraria e spirituale che trovava forma e sostanza grazie a un contesto brutale. Quell’emigrare all’interno del proprio paese, fu fatto fisico, spaziale, ancor prima che moto dell’anima.
Per via della stretta sorveglianza della Gestapo, abbandonarono infatti le grandi città e si trasferirono nei villaggi e nelle campagne alla ricerca di qualcosa di antico, che traesse spunto dell’eredità romantica, «anzi già stürmeriana, come provava l’inizio del Werther, con il giovane che lasciava la città per Wahlheim, il ‘luogo eletto’». È così che la interpreta Marino Freschi, nel suo ultimo libro, Germania 1933-1945: l’emigrazione interna nel Terzo Reich (Nino Aragno Editore, p. 166) in cui coglie nella incapacità di recidere il legame «con la patria e la cultura come categoria dello spirito e dell’interiorità», il vero motivo della rinuncia alla fuga. Perché gli esiliati, quelli che avevano deciso di andar via e poi avuto un discreto successo all’estero, non si erano mai posti questo dilemma.
Quelli che invece rimasero, immaginarono di poter alimentare una spinta eroica in grado di annullare ogni dimensione spaziotemporale e così esercitare una vocazione metastorica. Se la soluzione, per molti, fu l’esilio e per altri il suicidio, per costoro si alimentò un dramma tutto personale, nella convinzione che esperienza letteraria e via della salvezza potessero convivere con le brume del totalitarismo. E infatti fu spesso un salto all’indietro, verso il seducente mito antimodernista della Naturlyrik in cui si alimentava la controversia contro la civiltà delle macchine e i processi di massificazione già perfettamente abbozzati nelle grandi città. E così i vari Bergengruen, Carossa, Fallada, Haecker, Ernst e Friedrich George Jünger, Muth, Reck-Malleczewen, Schröder e Wiechert, immaginarono di poter trovare conforto nel sogno di una Heile Welt, il piccolo mondo rimasto intatto.
Certamente furono obbligati anche dalle contingenze a persistere in questo prolifico e disordinato caos creativo. Da una parte per via dell’autocensura, dall’altra per l’impossibilità di avere dei contatti tra loro continuarono a scrivere clandestinamente, perciò sviluppando una «peculiare inventiva, una particolare scrittura criptica, catacombale, segreta, clandestina», con una tendenza a un lirismo intrigante e allusivo, che portò taluni a parlare di «scrittura nascosta e di pratiche di occultamento».
Eppure, questo caos, se opportunamente vivisezionato, svela delle perle sorprendenti. Anche i tanti frammenti, raccolti solo dopo la fine della guerra, mantengono intatta una straordinaria potenza evocativa, in tal modo smontando la tesi di Mann per cui quel groviglio fosse solo legato ad una contingenza storica e mai avrebbe superato le barriere del tempo e i confini della Germania.