Battiato, il fuoco dell’Etna nella notte del mondo
Battiato è tornato alla Luce, oltre quel crinale dove il percorso non è più incerto e i danzatori dervisci disegnano la scenografia più bella.
Ora si sprecheranno – come, in fondo, è anche giusto che sia! – definizioni, esegesi e chiavi interpretative e che, prese per il verso giusto, possono ognuna avere una ragion d’essere.
Ma pur caleidoscopico e, per taluni aspetti, oscillante tra il misterico e il sulfureo, il mondo di Battiato impone a tutti un salto qualitativo sostanziale perché – nonostante ogni legittima posizione – esso sempre si inquadra in una chiara cornice di critica della modernità e di ossessiva ricerca del senso. Perché quello è il suo centro di gravità e l’orbita da cui tutto emana!
Se si vuole tenere la barra dritta senza perdersi nei miasmi e nelle contraddizioni dell’eterno presente non si può che mettere in primo piano questa matrice che è, allo stesso tempo, speciale capacità di navigazione in mille mondi e ancoraggio vigoroso allo Spirito. Mettere in versi filosofia e misticismo, religioni e saperi antichi incapsulandoli nella breve metrica di una canzone leggera e in un contesto artistico che, per sua natura, deve essere popolare, è stata la sua prova più sconvolgente che sottintendeva ad una perizia e ad una padronanza del sé non scontata. Ancor oggi è difficile pensare a come Gurdjeff o Guenon siano potuti passare abilmente dentro la metrica del tambureggiamento elettronico, o come il sufismo sia stato forzato nei tre minuti di una canzone leggera, o come siano state possibili mille altre contiguità stranianti.
In fondo, quell’aquila che non vola a stormi, e vuole trascendere il nulla, è il sogno di noi tutti; l’eterna aspirazione verso lo spirituale. E lui, viaggiatore anomalo in territori mistici, ha sempre rivolto la direzione di marcia verso questa via, la sola che porta all’essenza. Anomalo perché si è mosso attraverso un percorso di crescita e di ascesi che nulla aveva di sociologico o di retoricamente politico. L’essere caduto in fallo con una operazione come quella della partecipazione alla Giunta Regionale di Crocetta o con talune (poche) dichiarazioni stiracchiate rilasciate ai giornali su questioni di ordinaria banalità non intacca il quadro speculativo di un geniale artista antimoderno che, se preso nella sua integralità, riesce anche col verso più intriso di non-sense a mantenere fede ad una missione alta e perigliosa.
E non era impegno agevole. Il nostro paese è stato attraversato per almeno tre decenni da una corte dei miracoli, quella dei cantautori impegnati, che in non pochi casi ha sommerso di banalità e retorica ogni anfratto mediatico e culturale supportando battaglie di ogni tipo, difendendo regimi improponibili e cause bislacche, magari proponendosi come scendiletto per una fazione o l’altra. Ad ascoltarli oggi, molti di quei testi hanno perso qualunque carica ribellistica e quella fossilizzazione sul sociale appare ancora più noiosa di quanto non lo fosse già allora.
Battiato si è sin da subito tirato fuori da un simile scenario, riuscendo a fondere la necessità dell’isolamento con la presenza artistica, a trovare la giusta alchimia tra alterità e centralità. In questo modo la sua poetica non ha mai virato verso fossilizzazioni ideologiche o soluzioni pratiche legate ad una tangibilità volgare e grossolana ma soprattutto non è mai scaduta in intenti pedagogici. Per dirla con parole chiare, non ha voluto educare le masse – come pure in molti hanno tentato di fare – ma solo fornire ampi schizzi di un quadro complessivo di riferimenti culturali e spirituali. Lo ha fatto non reiterando uno schema o un canovaccio ma sperimentando, e calandosi nel nostro tempo senza vezzi o pedanterie. Aprendosi perciò all’avanguardia e all’elettronica, senza tralasciare la forma popolare nella forma più alta ed elegante, discettando di sufismo e di antiche sapienze senza cadere nella febbre palingenetica che colpì tutto il mondo cantautorale, e ahinoi, colpisce tuttora influencer e mezze calzette dello showbiz.
I falsi miti del progresso e il nichilismo di cui ne cantò gli epifenomeni ancora nel 2007 («Vuoto di senso, senso di vuoto/E persone, quante, tante persone/Un mare di gente nel vuoto») era lo stesso che aveva decodificato in Shock in My Town del 1998, in cui ridisegnava l’angoscia di una civiltà regredita allo stato primitivo in preda alla civiltà tecnologica e alla corruzione dei costumi, e che aveva segnalato con quel richiamo a Spengler nel suo Tramonto occidentale del 1983.
Un antimoderno che si è mosso non alla ricerca di un altrove passato o di una inverosimile e fantomatica età dell’oro ma per un ascetismo che incontrasse il tempo presente, e quindi a favore di un pessimismo speranzoso capace di «trovare l’alba dentro l’imbrunire».
Battiato è stato straordinario proprio per questo. Non solo non è caduto nella bruttura sudicia del sociologismo ma, pur muovendosi in territori apparentemente sulfurei (… e non solo evocandoli, ma tratteggiandoli) ci ha dato una mappa, delle indicazioni di viaggio. Dunque, non congetture o teoremi ma induzioni a cui autonomamente ognuno di noi potesse attingere. Una dimensione per certi versi fatalmente onirica, che non aveva (e non ha) nulla del vagare fantastico e senza meta che si trastulla in un altrove imprecisato e quasi impalpabile, ma canto che ci apre verso l’essenza di ogni cosa.