Il pensiero dell’alterità. Da Nietzsche a Friedrich Jünger
Mario Bosincu, ricercatore presso l’Università di Sassari, dirige una deliziosa collana editoriale per Le Lettere dedicata ai temi della letteratura e della filosofia tedesca. Di recente ha pubblicato, a sua firma, Stranieri in terra straniera. Dal romanticismo a Nietzsche, un volume che indaga il pensiero di autori vissuti tra la fine del Settecento e la Seconda Guerra Mondiale (Novalis, Chateaubriand, Coleridge, Byron, Carlyle, Thoreau, Nietzsche e Friedrich Jünger), accomunati dall’esperienza dell’alterità e dell’isolamento culturale.
Per comprendere appieno le forme in cui si manifesta questa alterità, concentrerò l’attenzione su Friedrich Georg Jünger, fratello minore del più celebre Ernst, il cui nome figura nell’indice in chiusura del volume. Sebbene sia l’autore meno riconducibile allo schema generale adottato da Bosincu, la sua presenza nell’elenco è tutt’altro che marginale proprio perché nella sua apparente non contiguità potrebbe celarsi la chiave per svelare l’intero mosaico.
Poeta, saggista e narratore, Friedrich è stato molte cose, financo associato all’avanguardia del pensiero ecologista, diventando negli anni una figura di riferimento dei Verdi tedeschi. Il suo percorso attraversa una prima fase di radicalismo politico, segnata dal coinvolgimento con i Wandervögel, dalla partecipazione alla Prima Guerra Mondiale nei Corpi Franchi e dal legame con la pubblicistica nazional-bolscevica di Ernst Niekisch. Nel tempo, però, sviluppa una riflessione autonoma e originale, vicina ma non del tutto sovrapponibile a quella del fratello. Gran parte della critica ha continuato a considerarlo una figura marginale, senza mai riconoscergli il giusto valore. Tuttavia, adottando un approccio rigorosamente analitico e procedendo ad una lettura comparata dei testi della prima metà del secolo, alla luce della loro cronologia di pubblicazione, emerge chiaramente un reciproco scambio di influenze. Vi sono esempi tangibili in cui è stato Ernst a trarre ispirazione dalle idee di Friedrich, come dimostrerebbero le riflessioni sulla «titanische Welt», e altri in cui le traiettorie divergono o procedono in parallelo, sempre in piena autonomia, ma senza mai entrare in conflitto.
Superata la fase nazionalistica, entrambi entrano a far parte della Innere Emigration e la loro scrittura si distingue per temi quali il rifugio, la fuga e il ripiegamento interiore, spesso espressi attraverso metafore, allegorie o allusioni di difficile decifrazione, sia per la complessità linguistica che per le restrizioni imposte dal regime. Centrale è la scelta di considerare la realtà attraverso una lente metastorica. Friedrich, infatti, fece propria la massima di Epicuro: «Vivere nascosti senza doversi nascondere significa vivere bene». Un principio che potremo applicare anche alla visione di Ernst.
La chiave adottata da Bosincu, quella della prospettiva psicologica, è particolarmente interessante perché permette di comprendere la scelta di Friedrich senza per forza dover seguire i multiformi percorsi del fratello. Pur tenendo conto di quanto scrive Ernst – : «Da tempo mio fratello ed io ci siamo occupati, sia soffrendone che essendone spettatori, del ritirarsi degli dèi e dell’avvento dei titani», l’analisi di Friedrich si concentra sulla questione del mito, mettendo in luce «le forze numinose che agiscono all’interno della psiche». Un disvelamento che non si limita a una regressione al passato, ma si configura come un tentativo di intercettare il mito, – o almeno intravederlo, adottando le giuste cautele-, in ogni attività umana. È una ricerca della luce attraverso l’elementare, ma sempre condotta da una prospettiva distaccata. Non è solo un dato simbolico, infatti, che Ernst abbia poi scelto di “ritirarsi” a Wilflingen, mentre Friedrich sul lago di Costanza.
Friedrich cerca di tracciare dei segnavia distinti da quelli del fratello, ma in alcuni momenti i loro percorsi esistenziali si sfiorano in una dimensione liminare. Come accennato, anche lui inizialmente si allinea all’ideologia nazionalista e a posizioni ultra-radicali («ogni vite di una mitragliatrice, ogni perfezionamento della guerra combattuta coi gas è più importante della società delle nazioni»), contribuendo a quella reazione collettiva di tipo palingenetico che immaginava una rigenerazione totale dell’uomo e della società. La guerra, con la sua forza distruttiva, veniva concepita come il mezzo per raggiungere una «vita originaria», intesa come il recupero di un’energia vitale primordiale progressivamente affievolitasi nel corso dei secoli.
Quel movimento nazional-rivoluzionario, infatti, non si limita a invocare un ritorno alla potenza prussiana, ma aspira a forgiare un nuovo tipo di uomo, anticipando per certi aspetti l’esaltazione della violenza e del culto della guerra tipici del nazismo. Egli vede la guerra come una manifestazione prometeica, un efficace presupposto della volontà di potenza, un impulso che si riflette nella creazione di una «comunità del sangue», che è simbolo di un legame trascendentale e spirituale più che biologico, e dunque mai legato a concetti razziali. Il suo pensiero si concentra sull’uso concreto della tecnologia — «ferrovie, aerei, navi da guerra, metropolitane, condutture per il trasporto dell’alta tensione, centrali elettriche non sono costruite perché rappresentano gli strumenti di un’economia superiore. Sono forze ed espressioni di una vita (…)» – e segue il versante filosofico adottato da Heidegger, secondo cui la tecnica è potenza che agisce senza interrogarsi su elementi di ordine morale.
Col tempo, Friedrich si distacca progressivamente da un’accettazione quasi inoperosa, avvicinandosi a una concezione più affine alla filosofia schilleriana, che rifiuta la disumanizzazione provocata dall’avanzamento tecnologico. La “ferita della modernità” di cui parla Schiller, con la sua deriva gelida e concettuale, favorisce l’affermazione dell’artificio e spinge oltre i confini apparentemente imposti dalla natura. Risanarla significa forgiare un nuovo ordine capace di trovare un equilibrio mutevole tra artificio e natura. Per Friedrich, dunque, la natura non può essere solo una cornice storica, ma un principio divino che attraversa tutta l’esistenza, compresa la tecnologia. Quest’ultima, da lui interpretata anche come una manifestazione di forze mitologiche e titaniche, spezza l’armonia al punto da rendere l’uomo lacerato dalla disumanizzazione.
Nel corso degli anni, Friedrich sviluppa però una critica sempre più radicale, riconoscendo nel nazismo l’espressione più estrema di questa corrente che è insieme ideologica, scientifica e sociale. Qui sta il cuore della sua riflessione: «senza organizzazione tecnica – scrive a Niekisch, nel 1946 – nessun nazionalsocialismo». Pur dichiarando di voler tornare alla natura e ad una Germania quasi archetipica, il nazismo ha finito per intrecciare mito e tecnologia, creando una sintesi da laboratorio che riduce inevitabilmente l’individuo a ingranaggio meccanico. Nonostante l’industrializzazione e la tecnica siano state rappresentate, per esempio da Goebbels, come una sorta di «nuovo Romanticismo» dove «il rombare dei motori» e le creazioni tecnologiche incarnerebbero un mondo romantico purificato dalla violenza della guerra, (non a caso Jeffrey Herf parla di modernismo reazionario), il quadro appare inequivocabile e perciò ne intuisce subito le minacce.
Nell’elegia Il papavero (1934) le metafore contro il regime sono così esplicite da colpire anche Thomas Mann, che parla di una «fenomenale aggressività nei confronti dei detentori del potere». Nello stesso anno, in un saggio su E.T.A. Hoffmann, riflette sulla duplice propensione della tecnica, che è insieme comfort e schiavitù, avanzamento sociale e aggressione della natura, mettendo in luce i pericoli che essa comporta per la sfera dei diritti, nonostante non si tratterebbe di un fenomeno inedito né di un’abiezione inedita, bensì di una progressione inarrestabile e pericolosa. Già durante la Repubblica di Weimar, la società manifestava infatti segni di frammentarietà e si avviava a essere dominata da un’azione umana sempre più regolata da criteri di calcolo, efficienza e logica strumentale, con masse urbane «separate simbolicamente dalla terra tramite l’asfalto». Tuttavia, è il nazismo a amplificare queste degenerazioni, condannando l’uomo alla «disanimazione», perché «il tecnico ha perso quell’antico senso di timore che trattiene l’uomo dal ferire la terra e dal mutare la forma della sua superficie». Sebbene possa produrre conforto, Friedrich prevede – proprio come Ernst, ne Il libro dell’orologio a polvere – che questa razionalizzazione, fatta anche di sicurezza e ordine sociale, finirà per ingabbiare l’individuo, costringendolo a una ritmica meccanica e preconfigurata, relegandolo a un «tempo degli orologi» che separa dalla «vita originaria».
Ecco perché, in un mondo tecnologicamente alienato, Friedrich anela alle folgorazioni dell’intuito, a un ritorno all’essenziale e al recupero dell’autenticità. Il libro sui Titani e quello sugli dèi greci sono dunque tentativi di svelare le dimensioni psichiche celate nei miti, che debbono essere indagati anche nella modernità, poiché, grazie alla loro proteiforme dissomiglianza, offrono uno strumento per comprenderla e decifrarla. D’altronde, la tecnica stessa affonda le sue radici nel mito di Prometeo, il titano che rubò il fuoco agli dèi e che, alimentando costantemente l’hybris, sfidò ogni legge sapienziale greca, fondata sulla misura e sul senso del limite. Dietro la volontà di potenza – che il fratello Ernst, almeno fino a L’Operaio, sembra quasi celebrare – egli intravede invece l’asservimento.
Die Perfektion der Technik descrive la tecnica come una forza che trasforma l’uomo in un automa, separandolo dal tempo naturale e minacciando la sua dimensione spirituale, fino a generare un profondo vuoto esistenziale. L’idea di poter dominare la tecnica, intesa come strumento — una concezione che, peraltro, pervade in modo totalizzante anche il discorso pubblico contemporaneo — è fallace, poiché, in realtà, siamo noi ad esserne dominati: questa è la sua tesi. Inizialmente intitolato Le illusioni della tecnica, il libro incontrò difficoltà editoriali e fu distrutto durante un bombardamento prima di essere finalmente pubblicato nel 1946. Ma a chiarire, anzi a mettere fine, alle voci sulle vicissitudini editoriali è lo stesso Friedrich in un’intervista del 1968: «in origine ero stimolato a mostrare il carattere illusorio della tecnica, ma in seguito trovai appunto che il principio agente, in certa misura la conseguenza di questa illusione è l’aspirazione alla perfezione, cui è sottomessa ogni altra cosa»
Il tema del tempo diventa un filo conduttore nei suoi scritti successivi, assumendo una funzione liberatoria. Questo aspetto emerge in modo particolare nei suoi testi di viaggio, come Vagabondaggi a Rodi, dove il tempo scandito dai ritmi della natura, si scontra con quello imposto dalla modernità e dalla tecnica, segnando così una frattura con l’armonia, la misura e il senso del limite, e portando a una condizione alienante. Una riflessione che si colloca all’interno di una crisi ontologica che sancisce il distacco irreversibile tra cultura e natura, facendo del suo pensiero ecologico non una mera questione ambientale, ma un vero e proprio problema esistenziale.
Se dal 1933 pubblica raccolte poetiche, nel pieno della seconda guerra mondiale, si dedica a uno approfondito studio della mitologia greca, che culmina nell’opera sui Miti greci (con il sottotitolo Apollo, Pan, Dioniso) in cui esprime una visione della cultura europea che rimette di nuovo al centro il legame profondo con la natura, l’armonia e la misura.
L’esigenza del ritorno al mito, di fronte ad una modernità segnata dall’arretrare degli dèi e dalla venerazione della tecnologia, lo conduce alla figura dei Titani della mitologia, ribelli agli dèi dell’Olimpo. Friedrich vede nell’economia industriale e nella tecnologia una manifestazione di questo «impulso titanico», già all’opera sotto il nazismo e ormai principio regolatore di ogni aspetto dell’esistenza. In questa prospettiva, il suo interesse si rivolge all’«uomo panico», che rifiuta ogni forma di razionalizzazione per aspirare a un ritorno all’autenticità, cercando una libertà capace di riconnetterlo al suo spirito primordiale e il fatto che molti dei personaggi dei suoi racconti diventino allegorie degli antichi dèi, attraverso i quali la bellezza della parola, della danza e della dimensione più pure dell’otium emergono su ogni altra cosa, è un dato fondamentale. Una delle illusioni più diffuse sulla tecnica è quella di ridurre il lavoro umano, promettendo più tempo libero e facendo credere che l’uomo «guadagni in ozio» mentre bisogna sempre «considerare l’organizzazione tecnica come un tutto connesso». Se negli anni Trenta Ernst crede in uno Stato che sfrutti la tecnica per accrescere la sua potenza, Friedrich afferma infatti che tale mobilitazione tecnica conduce inevitabilmente a un processo di pianificazione totale e al controllo.
La mitologia greca, in particolare Pan, simbolo della natura selvaggia (Wildnis), diventa uno degli snodi della sua riflessione. Abbandonata l’idea di superare la tecnologia, Friedrich cerca «soglie visibili» che, pur nella tecnicizzazione del mondo, possano restaurare il legame con l’essenza primordiale. Wildnis intesa dunque non solo come spazio naturale, quasi selvaggio, che si sviluppa senza intervento umano, in opposizione all’artificio e al dominio tecnico, ma anche forza interiore e primitiva, impulso spontaneo e istintuale, non soggetto alle strutture della civiltà. A questo punto, l’uomo che Friedrich intende rappresentare non è più un essere passivo che persegue un nascondimento pilatesco, ma un individuo forgiato da una condizione di alterità esistenziale. Una posizione di distacco dalla società che, anziché tradursi in fuga, diventa fenditura verso la rigenerazione, potenza creativa in grado di generare nuovamente la percezione del mondo e di sé.
Le esperienze di viaggio nel Mediterraneo, insieme al fratello Ernst, e le riflessioni sulla devastazione della natura offrono in questo senso la possibilità di porre finalmente la domanda centrale: la natura originaria è davvero perduta o si è trasformata in qualcos’altro? Ma soprattutto: interrogando il mito si può andare oltre la superficie delle cose o si rischia di rincorrerne una parvenza?
Per trovare risposte, basta seguire i segni disseminati nei suoi racconti. In Notte di Dalmazia, esplora il rapporto con la natura e il mito, ormai percepito non più come una realtà vivibile, ma come un pensiero che affiora solo in luoghi e momenti specifici. Lungo la costa dalmata, – ma anche in Sicilia – riconosce tracce del primordiale. Lo stesso slancio lo anima nel suo amore per i minerali, come i marmi. Friedrich, come uno scultore che «trae la forma dal rozzo marmo», cerca di riscoprire l’essenza delle cose, opponendosi alla razionalità scientifica e abbracciando una sensibilità contemplativa. L’esistenza dell’uomo somiglierebbe a quella dello scultore, che con la sua azione esprime il desiderio di un ritorno all’essenza. Il suo pensiero propone un cammino di rigenerazione che passa attraverso il distacco dalla società e la ricerca di una dimensione originaria e autentica, libera dalle alienazioni, eppure saldamente ancorata alla realtà. Non si tratta di un approccio scientifico, ma di una contemplazione profonda che riconosce nella materia stessa una lingua ancestrale. La sua ricerca dell’elementare non segue il metodo della razionalità, ma nasce dal desiderio di vivere la natura come fonte di autenticità, in opposizione alla disumanizzazione e all’inarrestabile urbanizzazione. Uno slancio che, appunto, si esprime simbolicamente anche nel suo amore per i minerali, come i marmi.
È in questo senso che il percorso di Bosincu culmina nell’unione del pensiero di Nietzsche con quello di Friedrich Jünger, proprio attraverso l’analisi del mito. A esemplificare questa visione è, paradossalmente, una citazione di Nietzsche in un suo volume dedicato alla volontà di potenza: «Sono nati postumi. (…). Osservano il loro tempo e vivono dietro gli eventi. Si esercitano a liberarsi dalla loro epoca e a comprenderla soltanto, simili ad un’aquila che si libri al di sopra di essa. Si limitano a cercare la massima indipendenza (…). Siamo emigranti». Distacco critico e la consapevolezza del proprio ruolo di individuo libero.