Non siamo in grado di capire quando finisce un amore, figuriamoci prevedere il crollo di un regime!

Il 9 Novembre 1989, “cadde” il Muro di Berlino, e per una notte i tedeschi diventarono il popolo più felice della Terra. Quel giorno il cancelliere Helmut Kohl era a Varsavia, segno che non aveva la percezione che la situazione stesse per precipitare. Secondo Theo Waigel, allora ministro delle finanze, il 9 Novembre tutto accadde un po’ per caso. Eppure già da un paio di mesi i tedeschi dell’Est fuggivano ad Ovest attraverso l’Ungheria, dopo che il governo di quel Paese aveva aperto la frontiera con l’Austria.

Nel 2011 ero in Libia quando scoppiò la guerra civile, quindi per una volta mi trovai anch’io nel cuore di un grande stravolgimento. Nelle settimane precedenti, i presidenti di Tunisia ed Egitto erano stati costretti a dimettersi al deflagrare della primavera araba, ma a Tripoli nessuno pensava che il regime sarebbe crollato. Perlomeno fino a quel fatidico 21 Febbraio, quando tutto degenerò.

Giovedì 17 Febbraio, la vita scorreva tranquilla nel nostro cantiere a quaranta chilometri dalla capitale, ma da giorni i media mondiali raccontavano dei disordini scoppiati a Bengasi, in Cirenaica. La gente a Tripoli era benestante. La povertà apparteneva solo agli immigrati dei paesi sub-sahariani che la mattina si raccoglievano in certe zone della città, nella speranza di essere scelti da qualche padroncino, pagati una media di 6 dinari (4 euro) al giorno.

In quegli anni Tripoli era un enorme cantiere in movimento. Nel decennio precedente, Gheddafi si era dato un’aura da padre-padrone eccentrico, ma in fin dei conti con la testa sul collo. Un paio di mesi prima che gli eventi precipitassero, ascoltai per radio una voce cavernosa con lunghe pause carismatiche. Era Gheddafi. L’autista Shaher parlava un inglese scarno, ma aveva il dono della sintesi, e riassunse così: «Gheddafi speak petrol bad for people and tree and water and animal». Il petrolio era la maggior ricchezza del Paese, trovavo curioso che Gheddafi ne parlasse male. Shaher scoppiò a ridere: «Gheddafi no work. Gheddafi like speak!». Intendeva dire che il Colonnello non aveva nulla da fare, e gli piaceva filosofare. Shaher lo ascoltava come un oracolo fuori dal mondo, un po’ come sette anni più tardi noi avremmo cominciato ad ascoltare Greta Thunberg.

Giovedì 17 Febbraio il capo libico della nostra joint venture era preoccupato per i disordini a Bengasi, ma giudicava gli abitanti di quella città “teste calde”. L’indomani Gheddafi avrebbe posato la prima pietra del nuovo stadio a Tripoli, e tutti avrebbero dimenticato furori e malumori.

La mia cartina di tornasole in cantiere era l’umore degli autisti libici. Fino a pochi giorni prima erano tutti abbastanza tranquilli, ma il 21 Febbraio l’atmosfera cambiò radicalmente. La sera precedente il cuoco avrebbe voluto andare in città, ma gli autisti, allarmati dagli scontri violenti, si erano rifiutati di accompagnarlo. Il 21 mattina, alcuni cantieri nella nostra zona erano stati assaltati: il personale malmenato, mezzi e attrezzatura saccheggiati. Anche le notizie dalla capitale erano pessime, con scontri in centro e palazzi governativi assediati. Verso le due di pomeriggio, io e altri cinque italiani radunammo in fretta e furia le nostre cose e schizzammo prima a Tripoli a raccogliere due colleghi, e poi in aeroporto.

Durante il tragitto, sul pulmino non volava una mosca: eravamo tutti contratti e timorosi di incappare in qualche manifestazione o posto di blocco. Appena fuori dal cantiere di Sidi Sayah, incrociammo un pick-up Toyota stracarico di persone con volti e atteggiamenti poco rassicuranti, ma arrivammo senza intoppi in aeroporto. Passammo le 22 ore successive sdraiati per terra con altre migliaia di persone, i wc presi d’assalto, il bar senza più acqua né cibo.

Lunedì 22 Febbraio si diffuse la notizia di un fantomatico bombardamento avvenuto a Tripoli durante la notte. Tutte le informazioni, però, arrivavano dai telegiornali di Al Jazeera (Qatar) e Al Arabiya (Dubai), mentre nessuno dei nuovi entrati in aeroporto aveva visto o sentito nulla. Infine i nostri nomi furono scanditi da un addetto del volo Alitalia organizzato dalla Farnesina.

La Libia era una realtà diversa, e molto più ricca, rispetto a Tunisia ed Egitto. Fino ai primi anni 2000, le autorità sequestravano le riviste agli stranieri che entravano. Solerti funzionari, armati di pennarello, censuravano le figure considerate sconvenienti. Dopo una settimana, giornali e giornaletti venivano restituiti, mica buttati via! A un mio collega avevano riconsegnato il Topolino con le scandalose gambe di Minnie rivestite da un pennarello nero. Nel corso del decennio successivo, però, Gheddafi aveva aperto le porte agli investimenti stranieri, e gran parte del Paese stava vivendo un periodo di rinascita.

Nel 2011 i tripolini stavano bene: il pane costava pochi centesimi al chilo e Gheddafi aveva promesso nuovi alloggi per tutti. Il movimento di pancia che stava sconvolgendo i paesi confinanti, in Libia sembrava non avere alcun senso…

Giovedì 24 Febbraio Shaher al telefono sosteneva che a Tripoli la vita fosse tornata tranquilla… «Shaher, sei matto? I giornali e le tv danno notizie terribili. Oggi parlano di diecimila morti!» … «People TV too much crazy: testa chiusa con controbullone! Tripoli no problem. Bangla* ok. When come back?».

 

* Operai dei Bangladesh.

 

L’immagine su questo blog è di Deborah Joy Bormann @deborahjoybormann.

Deborah nasce a Trieste, città di confine, da padre statunitense e madre spagnola. Vive a Bologna, Pisa, Amsterdam, Madrid, San Francisco. Una serie di coincidenze e passioni la porta a Torino, oramai città d’adozione.
Spirito indipendente, visionario e… disperatamente ottimista.
Madre, compagna, insegnante, arteterapeuta e artista.
Da sempre adora leggere, scrivere, pensare e creare.

Le idee espresse da Andrea nei suoi articoli non rappresentano necessariamente le opinioni e le convinzioni di Deborah.
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