Il 4 Novembre 1956 i carri armati sovietici entrarono in Ungheria per sedare la rivolta che era scoppiata contro la dittatura. Giorgio Napolitano allora era una giovane rotellina del partito comunista italiano, e si schierò, per un eccesso di realpolitik, dalla parte degli invasori. Alla fine i morti per ristabilire lo status quo si contarono a migliaia.

Il fatto che nel 2011, da Presidente della Repubblica, Napolitano fosse stato il più convinto sostenitore dell’intervento militare in Libia, apre il dibattito sul confine sottile tra realpolitik e spirito splatter.

Fu proprio con Giorgio Napolitano al Quirinale che il ruolo di Capo dello Stato straripò ben al di là delle “colonne d’Ercole” entro le quali si erano tenuti i suoi predecessori. L’unica costante di tutti i Presidenti, da Enrico De Nicola a Sergio Mattarella, è che fossero politicamente ininfluenti prima di venire eletti. Ogni nuovo capo di stato galleggiava per un paio d’anni, e poi improvvisamente diventava “statista” dopo aver imparato a destreggiarsi in quel ruolo ambiguo. Un ruolo che fino alla fine degli anni 80 era avviluppato da un forte sistema partitico che teneva in pugno il presidente di turno come Konrad Lorenz le sue paperette. Dopo tangentopoli (1992) i partiti non avevano più la forza di esercitare una salutare sindrome di Stoccolma sul personaggio politicamente ininfluente di turno, e ogni nuovo Presidente ha cominciato a sviluppare le stigmate del santo unto dal Signore.

Lo scopo di questo articolo è di rivivere a ritroso, da quando ero bambino ad adesso, la mia percezione di quella carica.

Ho vaghi ricordi del settenato di Giuseppe Saragat (1964-1971), ma il “mio” primo Presidente, colui per il quale ho cominciato ad avere un’opinione, è stato Giovanni Leone (1971-1978). Mi è rimasta impressa la foto su un rotocalco: c’era il Presidente in visita ad ex malati di colera, e una mano a forma di corna nascosta dietro la schiena. La rivista aveva messo in evidenza quel gesto con un cerchiolino rosso, ma chissà se erano corna volute oppure involontarie. In seguito capii che molte delle mie impressioni negative su di lui erano sbagliate.

Leone fu costretto a dimettersi a causa di una campagna di stampa piena di falsità scatenata da Camilla Cederna. In seguito la giornalista fu condannata per diffamazione, ma ci vollero decenni prima che Leone venisse completamente riabilitato.

La mia percezione da moccioso sul ruolo presidenziale era divisa in due parti. La prima era quella che dovevo ripetere alla maestra: «Il Presidente della Repubblica è la più alta carica dello Stato…». La seconda, «… ma non conta un tubo», era una mia interpretazione ascoltando i discorsi degli adulti e unendo il puntini.

Quell’opinione non cambiò quando al Quirinale salì Sandro Pertini (1978-1985). Riccardo Lombardi, ex partigiano e poi esponente del Partito Socialista, lo descrisse come un «cuor di leone col cervello di gallina», per le doti e i limiti mostrati durante la Resistenza. Pertini nel suo ruolo di Presidente era simpatico, nazional-popolare e scheggia pazza. Le sue sortite, però, erano circoscritte ben all’interno dell’arco costituzionale.

Le cose cominciarono a cambiare con Francesco Cossiga. I primi 5 anni del suo settenato (1985-1992) li passò in modalità silenziosa, mentre gli ultimi due furono da delirio. Oltre oceano danno abbastanza per scontato che il tappo su tangentopoli fosse stato scoperchiato dagli Stati Uniti; in fin dei conti l’Unione Sovietica era crollata, e l’America non aveva più interesse a proteggere governi “amici” e “corrotti”. La mia personalissima opinione è che Cossiga, da sempre appassionato di Servizi Segreti, fosse stato informato in anticipo che il sistema stava per crollare, e scatenò l’inferno con le sue “picconate” verbali quotidiane.

Dopo Cossiga fu eletto Oscar Luigi Scalfaro (1992-1999), che durante il suo settenato divise l’opinione pubblica: una metà (la sinistra) cominciò a trattarlo come uno statista, l’altra metà lo considerava solo un trombone. La sua reputazione subì una scossa di assestamento quando scoprimmo che dal 1982 fino a Mani Pulite, ogni Ministro dell’Interno aveva preso, in forma privata dai Servizi Segreti, un obolo di 100 milioni di lire. Avendo ricoperto quell’incarico dal 1983 al 1987, lo “statista” doveva essersi preso un bello spaghetto, e il 3 Novembre 1993 si affacciò al nostro balcone virtuale (la tv), e a reti unificate urlò con la erre moscia tutto il suo sdegno: «Non ci sto! A questo gioco al massacvo io non ci sto!».

Scalfaro concluse il suo mandato sempre a metà strada tra le due opinioni che gli italiani avevano di lui. Chi invece diventò Statista a tempo pieno è Carlo Azeglio Ciampi (1999-2006). Aldo Cazzullo, sul necrologio, lo descrisse enfaticamente come colui che ci aveva restituito l’orgoglio di essere italiani. Che un po’ fosse vero me ne accorsi nella primavera 2006, quando constatai che due miei fratelli avevano l’inno di Mameli come suoneria sui loro telefonini, e non si erano messi d’accordo!

Portò bene: Zidane diede una testata a Materazzi, e l’Italia vinse i mondiali di calcio contro i nostri odiati (e poi amati, e poi daccapo) cugini d’oltralpe.

Dopo Ciampi, al Quirinale salì Giorgio Napolitano (2006-2015) che esercitò il suo ruolo ben al di là dei confini entro i quali si erano tenuti i suoi predecessori. Qui mi limito a parlare della sua influenza sulla guerra in Libia, anche perchè nel 2011 lavoravo a Tripoli, e quando in quel Paese scoppiò la rivoluzione, fui costretto a fuggire con il primo volo della Farnesina. In un’intervista del 2017, Napolitano dichiarò che la responsabilità del nostro intervento contro Gheddafi era da attribuire al governo Berlusconi. Renato Schifani nel 2011 era Presidente del Senato, e contestò immediatamente quella versione dei fatti. Secondo lui c’era una verità formale, decisione presa da Berlusconi, e una sostanziale: Napolitano, nel suo ruolo di capo supremo delle Forze armate, esercitò una pressione decisiva sul governo. Il 17 Marzo 2011, il presidente francese Nicolas Sarkozy aveva già il dito pruriginoso sul grilletto, e mise il nostro governo davanti a un ultimatum: fare parte della coalizione con Stati Uniti e Gran Bretagna, oppure rimanere ai margini. Quella sera fu Giorgio Napolitano che davanti a sei testimoni molto influenti tracciò la via, affermando: «L’Italia non può rimanere fuori».

Sergio Mattarella (2015-2022) ha riportato il ruolo di Presidente della Repubblica al di qua delle “colonne d’Ercole”, ma la nuova VIA è ormai aperta. Per evitare che in futuro venga percorsa da influenze estere, col rischio di vederla magari trasformata in Via della Seta, non sarebbe il caso di ascoltare Francesco Cossiga che nel 1991 propose l’elezione diretta del capo dello Stato?

 

L’immagine su questo blog è di Deborah Joy Bormann @deborahjoybormann.

Deborah nasce a Trieste, città di confine, da padre statunitense e madre spagnola. Vive a Bologna, Pisa, Amsterdam, Madrid, San Francisco. Una serie di coincidenze e passioni la porta a Torino, oramai città d’adozione.
Spirito indipendente, visionario e… disperatamente ottimista.
Madre, compagna, insegnante, arteterapeuta e artista.
Da sempre adora leggere, scrivere, pensare e creare.

Le idee espresse da Andrea nei suoi articoli non rappresentano necessariamente le opinioni e le convinzioni di Deborah.
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