Fino a qualche anno fa noi casalinghi di Voghera pensavamo che tutto il colesterolo fosse da eliminare. Poi, improvvisamente, cominciarono a fioccare articoli sul “colesterolo buono”. Il politicamente corretto è qualcosa di simile, nel senso che pretende di operare un taglio lineare, mettendo tutto il bene da una parte, e il male dall’altra: tutto il colesterolo di qua, zero colesterolo di là.

Fu Giulio Tremonti l’inventore del tagli lineari. Negli anni in cui diventò urgente una seria revisione della spesa pubblica, l’allora Ministro delle Finanze adottò una specie di Letto di Procuste, one-size-fits-all (qui): la voce di spesa sotto scrutinio veniva fatta sdraiare sul lettino dell’allegro chirurgo, e anziché stare lì ad analizzare cosa fosse utile e cosa fosse spreco, si tagliava in modo da far combaciare le dimensioni della “paziente” con la dimensione del letto.

Digressione. Tre o quattro volte all’anno, Tremonti concede divertenti interviste oracolari, dove annuncia urbi et orbi l’imminente fine del mondo. Confesso di rimanere spesso incantato dal suo tono da Cassandra, e solo quando chiudo il giornale gli chiedo (seppure virtualmente): «Scusa Giulio, ma in quegli anni tu dov’eri?». Durante tutti gli anni zero del secolo, Tremonti era uno degli uomini più potenti d’Italia. Nell’ultimo governo Berlusconi era più o meno l’unico ministro con portafoglio, e nei primi mesi del 2011 sembrava addirittura ambire alla Presidenza del Consiglio. Alla fine, però, anzichè Tre, optarono per un Monti solo.

Per tornare all’argomento iniziale, colesterolo cattivo, colesterolo buono. Esiste un razzismo cattivo, detto anche xenofobia, e un razzismo che non si può definire buono, ma fisiologico. C’è un livello di razzismo endemico simile alla “piena occupazione” in economia. Esisterà sempre quel 3% di persone che non lavorano, quindi, per comodità, si arriva a un punto in cui si dice: occhei, sotto questa linea le cose vanno abbastanza bene.

Ho trovato una gestione sobria del razzismo endemico durante i miei lavori itineranti con un’azienda oil & gas. Lavoravo con turni di tre mesi fuori e un mese di vacanza a casa. Il progetto era sul Mar Caspio, Kazakistan, dove il clima è incazzato e continentale, con fantastiche escursioni termiche tra estate ed inverno. Più il luogo dei mastodontici lavori oil & gas è ostile, più i pasti diventavano un rito quasi religioso per gli espatriati.

A colazione-pranzo-cena, ogni gruppo etnico trovava il buffet con i suoi piatti di riferimento. La qualità (gestita da aziende di catering italiane) era ottima. C’erano gli orientali (malesi, filippini, indonesiani) che mangiavano più o meno le stesse cose. I Kazaki erano ghiotti della loro carne di montone o di cammello dal gusto ostico per gli europei. Per noi italiani c’erano i tipici piatti che fanno bene alla vista, ancora prima che al palato. Qualsiasi Project Director che si rispetti sa che in luoghi del genere, con turni di dodici ore sette giorni su sette, sul cibo NON si fa economia.

Il modo in cui mangiavamo era intriso di quel razzismo endemico, fisiologico, che descrivevo prima. A meno di situazioni particolari, l’indiano amava mangiare con l’indiano, l’italiano con l’italiano, il kazako con il kazako. Questione di religione gastronomica, forse. Avere di fianco uno che mangia cammello e un pasticcio di patate mentre tu hai davanti la pasta al pomodoro, alla lunga, potrebbe essere complicato. La naturale segregazione da chi era diverso da te era automatica e priva di risentimento viscerale. Non capitava praticamente mai che un italiano si sedesse a mangiare al tavolo dei kazaki, o viceversa.

Andare al ristorante indiano o giapponese nella nostra vita civile è una cosa diversa. In lavori lontano da casa, il mangiare sostituisce gli affetti: più il clima è duro, e più questo paradigma è vero. Solo l’amore è in grado di andare oltre quel razzismo endemico. Per amore, impari anche ad assaggiare la carne di cammello.

Il razzismo viscerale è una cosa diversa, ed è nefasto almeno quanto il suo presunto antidoto, rappresentato dal taglio lineare del politicamente corretto. Il razzismo viscerale è come un “rutto” che al meglio è solo stupido. Quando va male diventa pericoloso, anche se abbiamo compiuto passi da gigante dai tempi in cui “rutti” retorici di Gabriele D’Annunzio provocarono quasi da soli l’entrata dell’Italia nella più micidiale delle guerre.

Chi è affetto da questa specie di gastrite razziale, potrebbe immaginare di essere nello spazio e osservare la Terra da molti chilometri di distanza. Sapere che quella piccola biglia blu ci raccoglie tutti, è il modo migliore per guardare la questione delle etnie da un punto di vista meno becero.

Per sciogliere gli insopportabili lacci e lacciuoli del politicamente corretto, sarebbe utile trovare maniere intelligenti di gestire il razzismo endemico, anzichè seguire le sirene del capopopolo di turno che modula i suoi “rutti” come una sinfonia.

 

L’immagine su questo blog è di Deborah Joy Bormann @deborahjoybormann.

Deborah nasce a Trieste, città di confine, da padre statunitense e madre spagnola. Vive a Bologna, Pisa, Amsterdam, Madrid, San Francisco. Una serie di coincidenze e passioni la porta a Torino, oramai città d’adozione.
Spirito indipendente, visionario e… disperatamente ottimista.
Madre, compagna, insegnante, arteterapeuta e artista.
Da sempre adora leggere, scrivere, pensare e creare.

Le idee espresse da Andrea nei suoi articoli non rappresentano necessariamente le opinioni e le convinzioni di Deborah.
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