Pascal Bruckner, Un Colpevole Quasi Perfetto
Per risollevare entità o persone in disgrazia, talvolta possono intervenire solo personaggi al di sopra di ogni sospetto, e quindi schierati all’opposizione. Fu Richard Nixon, un presidente americano di destra, che nel 1972 aprì le porte alla Cina comunista di Mao Zedong. Vent’anni più tardi toccò a un suo successore di sinistra sdoganare lo stesso Nixon, che nel frattempo era caduto in disgrazia dopo lo scandalo Watergate. L’unico che potè permettersi di restituirgli dignità e autorevolezza fu Bill Clinton, non certo i Repubblicani Ronald Reagan e George Bush sr che durante i loro mandati si tennero sempre il più distanti possibile da lui. Clinton invitò Nixon alla Casa Bianca, e volle avere i suoi consigli su svariati argomenti di politica estera e domestica.
Un libro pubblicato nel Maggio 2021 getta un fascio di luce su un tipo particolare di progressismo che negli anni si è trasformato in oscurantismo. Pascal Bruckner, l’autore di Un Colpevole Quasi Perfetto, è un intellettuale francese di sinistra, quindi appartenente a un tipo di cultura lontana da quel genere di argomenti. Anche qui, una persona contraria ai principi della destra, sdogana un argomento tipicamente di destra.
Da circa tre decenni, un morbo molto più subdolo del Covid è in espansione in tutto l’Occidente, a partire dagli Stati Uniti dove è divampato. I suoi ingredienti principali sono l’ossessione razziale e l’incubo identitario. Il nemico supremo è identificabile da tre indizi: 1) uomo 2) bianco 3) eterosessuale. L’Occidente si cosparge il capo di cenere per i secoli di schiavismo, colonialismo, omofobia, maschilismo. La causa di questo squilibrio, scrive Bruckner, potrebbe essere un corollario della legge di Tocqueville: un popolo insorge quando la sua condizione migliora, non quando peggiora. L’emancipazione di ogni categoria della nostra società è solo la prima tappa di un lungo percorso di intransigenza e assolutismo. Siamo ossessionati dalla simmetria dei diritti, e i progressi di eguaglianza sono già obsoleti un minuto dopo che diventano acquisiti.
La liberalizzazione sessuale degli anni Sessanta, negli anni Novanta ha cominciato a sviluppare una sua «complessità giuridica» scrive Bruckner. Tutto cominciò al college Antioch in Ohio: in seguito alle molte cause legali di presunte violenze sessuali, per evitare di perdere i finanziamenti, fu inventato una specie di avvocato-virtuale-portatile-sempre-appresso, denominato “affirmative consent”: una fitta trama di domande e risposte articolate prima e durante ogni rapporto sessuale tra studenti fu inizialmente consigliato, e poi diventò la norma.
L’amore da quel momento si è trasformato una specie di gioco dell’oca: «Posso baciarti?» Si. Avanza di una casella. «Posso sfilarti la maglietta?». Si. Avanza di un’altra casella. Posso appoggiare la mia mano destra sul tuo seno sinistro?… Dopo ogni domanda c’è sempre il rischio di essere rispediti alla casella di partenza, che d’altra parte era esattamente quello che accadeva anche nell’era analogica, seppure in modo implicito. Così come il navigatore satellitare in automobile ci dice quando svoltare e quando andare dritti, anche in amore siamo arrivati al punto di non poterci più fidare del nostro senso di orientamento, che nei rapporti umani si chiama empatia e buon senso. Senza accorgercene, abbiamo sostituito il nostro senso comune con una avvocato virtuale che ci assiste come un navigatore satellitare in qualsiasi relazione troppo intima.
Nei secoli, sono nati miliardi di pargoli grazie agli stati mentali alterati, ma l’affirmative consent non è valido sotto l’influsso di alcol e droga. Un paio di giorni fa è uscita una notizia surreale che dà il segno dei tempi: su un volo New York-Londra, una donna ha accusato il suo vicino di posto di averla violentata. Ancora non sappiamo come siano andate esattamente le cose. Per ora l’unico dato certo è che quando l’aereo è atterrato, l’uomo è stato arrestato. Ipotizziamo che i due avessero avuto una relazione intima dopo aver bevuto alcol: l’uomo può essere accusato di violenza sessuale, solo perchè lei non era lucidissima? A bordo di un aereo di linea? Sui sedili di una business class? Mentre gli altri passeggeri dormivano?
Copio incollo le parole prive di dubbi espresse genericamente (e quindi non riferite a questo caso) dall’avvocato Giulia Bongiorno in una recente intervista a Repubblica. Me la immagino pronunciare con occhio vitreo un’opinione che pare già una sentenza: «Si, certo. L’alterazione dello stato psico-fisico causata dalla assunzione di sostanze alcoliche incide sulla libertà di autodeterminazione, viziando il consenso al rapporto sessuale».
Se il confine tra rapporto consenziente e violenza è diventato terreno minato, da qualche anno, scrive Bruckner, si è aggiunto un ulteriore fattore inquietante. Per un reato sessuale: fine pena, MAI!
Roman Polanski ha scontato la sua condanna in seguito a un “rapporto sessuale con minorenne” avvenuto nel 1977. La vittima ha più volte dichiarato di aver perdonato il regista, ma NON i gruppi che a intermittenza riemergono contro di lui. Un omicida sconta la sua pena, e poi può riprendere la sua vita. Il reato sessuale, invece, sembra un fuoco destinato a non estinguersi mai. Per Woody Allen non basta neanche che un tribunale americano lo abbia assolto da accuse infamanti su inesistenti abusi sessuali ai danni della figlia Dylan. Dal punto di vista mediatico, Allen è comunque colpevole, boicottato, marchiato con la lettera scarlatta.
Un altro fattore importante del suicidio culturale del’Occidente è il senso di colpa per lo schiavismo. Bruckner cita l’antropologo Tidiane N’Diaye. Africano. Non un bianco retrogrado. Se la tratta occidentale cominciata nel XVI secolo può essere definita un crimine contro l’umanità, quella orientale da parte degli arabi-musulmani fu un autentico genocidio che provocò, tra il VII e il XX Secolo, circa 17 milioni di vittime (tra uccisioni e mutilazioni). Prima di essere esportati come merce, gli schiavi venivano castrati con metodi brutali per non “inquinare” la razza dei loro futuri padroni. Nelle Americhe vivono 70 milioni di neri e mulatti. Nel mondo arabo e in estremo oriente, dove gli schiavi venivano venduti, la percentuale di meticci è quasi inesistente. Le donne africane erano richieste come merce sessuale, e quando partorivano, i bambini venivano uccisi, oppure castrati a loro volta. Eppure noi occidentali, felici nella nostra limpida trasparenza, siamo riusciti nell’intento di addossarci per intero quel senso di colpa.
Poi c’è la cultura della cancellazione, ovvero giudicare con la morale di oggi le azioni, ma molto spesso anche solo i pensieri, delle persone di ieri. Bisogna riconoscere a questa stortura il merito di avere unito i destini di due personaggi antitetici: il lascito di Winston Churchill è stato infangato anche per aver definito Mohandas Gandhi un fachiro mezzo nudo, mentre Gandhi stesso subisce una condanna postuma per avere avuto pregiudizi nei confronti dei neri nel suo periodo sudafricano. Per parafrasare Pietro Nenni, siamo in un’infinita catena alimentare di purezza più pura che ci epura.
La cultura della cancellazione funziona solo a senso unico: serve per screditare, non per riabilitare. Richard Nixon si dimise in disgrazia per aver fatto spiare la sede del partito democratico nel complesso edilizio Watergate di Washington. Nel 2013, durante la presidenza di Barack Obama, Edward Snowden rivelò che un’agenzia americana affiliata alla CIA violava sistematicamente le protesi tecnologiche dell’intera popolazione mondiale (compreso il cellulare di Angela Merkel). Se è giusto giudicare le azioni di ieri con il metro di oggi, al confronto di Obama che faceva spiare miliardi di persone, Nixon, suo umile precursore, fu costretto a dimettersi per averne spiate al massimo qualche decina. Eppure nei sui confronti non è prevista una riabilitazione postuma.