Qualche giorno fa un inviato di guerra di una tv francese ha affermato di non aver mai visto orrori come quelli provocati dai russi in Ucraina. La sua testimonianza dovrebbe dimostrare che questo conflitto è peggiore di tutti gli altri, ma forse conferma solo qualcosa che sapevamo già: nelle guerre degli ultimi decenni in Paesi culturalmente remoti, i giornalisti avevano meno libertà di movimento, e il sangue che raccontavano era di un colore scuro e rappreso, come una testimonianza di seconda o terza mano.

Paradossalmente, i rapitori e i tagliatori di teste in Siria e Iraq contribuirono a nascondere quello che accadeva in quelle guerre asimmetriche. Nella guerra in Ucraina in questi ultimi giorni assistiamo a una vera e propria parata di vip in visita a Kiev, segno che per la prima volta dalla guerra del Vietnam anche i giornalisti possono circolare più liberamente, e hanno la possibilità di entrare direttamente in contatto con gli effetti tragici che questa guerra ha avuto sulla popolazione civile.

E’ giusto mostrare le foto più cruente di un conflitto? L’assenza di immagini fa si che nella nostra cultura legata all’immagine, l’argomento non esista. Se in tutte le guerre ci fosse testimonianza visiva di quello che accade, sarebbe più difficile sostenere tesi di cronisti impressionati dal primo sangue ossigenato e arterioso che vedono, dopo decenni di sangue scuro porpora raccontato attraverso qualche intermediario.

In passato sui giornali venivano spiattellate le foto più crude. Tempo fa cercai nell’archivio online di un quotidiano una notizia di cronaca nera che negli anni Ottanta aveva scosso la mia città. Quando aprii la vecchia pagina di giornale digitalizzata, comparve la foto di un ragazzo riverso nella sua camera da letto: era il compagno di banco di un mio cugino, che quel giorno della ricerca online era con me, e quando vide l’immagine sbiancò in volto. Eppure la foto del suo amico ucciso dal padre doveva averla vista anche allora, ma la sua memoria l’aveva cancellata. E aveva rimosso anche l’abitudine barbara di mostrare immagini troppo cruente. Ma è proprio così? Siamo più civili ora?

Uno dei mali occidentali è il celebrato “pensiero positivo”, e gli eufemismi da esso generati. Curiosamente, mentre in America negli anni Novanta nasceva il morbo del politicamente corretto, in Italia Jovanotti, cantava «Io penso positivo, perchè son vivo, perchè son vivo…» (qui). Ascoltando quelle parole uno può rimanerne ancora contagiato, per poi magari accorgersi che la visione positiva a tutti i costi non è altro che l’effetto ottico dell’esclusione di tutte le altre opzioni che in quel momento appaiono negative. Praticamente un paraocchi.

La prospettiva occidentale delle primavere arabe è un esempio di pensiero positivo senza happy ending. La maggior parte di quelli che in quei primi anni Dieci viveva nel Maghreb, sapeva che in quei luoghi la democrazia come la concepiamo noi era utopia. Eppure era quasi impossibile parlarne senza rischiare di essere bollati come gheddafiani incalliti. Il pensiero positivo in quel caso era più che altro la visione di chi guarda la realtà attraverso lo specchio distorto mediatico. Il metodo più semplice e deleterio per estinguere il senso di colpa che deriva dal benessere, è proiettare i propri ideali su una realtà a loro incompatibile.

Il pensiero positivo porta ad altre discontinuità difficili da argomentare senza passare dalla parte del torto. Mi riferisco all’enfasi mediatica dedicata alle paralimpiadi, dove persone con ogni genere di handicap si sfidano per vincere una medaglia. Eppure l’eccellenza nello sport ha sempre coinciso con l’eleganza del gesto atletico. Le paralimpiadi, sotto questo aspetto, NON sono diverse da ipotetiche competizioni per anziani, con novantenni che duellano, si prendono a pugni, o si sorpassano a velocità bradipesche in carrozzine avveniristiche su strade asfaltate. Che senso ha? Se il fine è quello di dare speranza a persone con disabilità, non sarebbe più utile (e meno ipocrita) enfatizzare ambiti dove possano misurarsi alla pari con i normodotati, anzichè pompare retorica in esibizioni che qualcuno guarda, ma nessuno vede? Poi nella vita privata tirino di scherma, giochino a pallacanestro, corrano lunghe distanze… ma cosa c’entra elevare quel desiderio legittimo a fenomeno mediatico?

Esistono molte altre discontinuità, ma per oggi basta così.

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