Il 17 Gennaio 1961, tre giorni prima del giuramento di John Kennedy alla Casa Bianca, il presidente uscente Dwight Eisenhower fece un discorso profetico, esprimendo concetti che hanno condizionato per sessant’anni la politica mondiale.

Quel giorno Eisenhower si era congedato lanciando l’allarme sull’industria americana delle armi che negli anni della seconda guerra mondiale era cresciuta a dismisura. Quel comparto dava ormai lavoro a migliaia di americani, e stava diventando uno stato dentro lo Stato:

«Dobbiamo guardarci dall’influenza ingiustificata, voluta o involontaria, da parte del complesso militare-industriale. Il potenziale per la disastrosa ascesa di un potere mal riposto esiste e continuerà ad esistere. Non dobbiamo lasciare che il peso di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i processi democratici {…} Solo una cittadinanza vigile e consapevole può imporre la corretta integrazione dell’enorme macchina di difesa industriale e militare con i nostri metodi e obiettivi pacifici, in modo che sicurezza e libertà possano prosperare insieme».

Il suo monito restò lettera morta, quell’industria non fu mai ridimensionata, e (forse non per caso) negli anni seguenti gli Stati Uniti si impelagarono in decine di conflitti, quasi tutti disastrosi in termini di vite umane, ma spesso fallimentari anche dal punto di vista strategico. Negli anni Ottanta fu inaugurato lo schema Ponzi della loro politica estera: sconfiggere il nemico di oggi armando i nemici di domani. Per logorare l’Unione Sovietica in Afghanistan, l’America foraggiò i futuri compagni di merende di Osama Bin Laden.

Armare gli ucraini è stato legittimo, e non fa parte dello stesso schema. Ma quello che colpisce è l’indeterminatezza delle misure sempre più draconiane adottate in favore della guerra, senza fissare una via di uscita diplomatica. A dettare la linea non è il presidente Zelensky, e tantomeno le cancellerie continentali europee, ma sono gli Stati Uniti e il loro più fedele alleato, la Gran Bretagna. Entrambi i leader di questi due Paesi sono ai minimi di popolarità. Prima che Putin decidesse di scatenare la disastrosa campagna in Ucraina, Boris Johnson era politicamente morto, tenuto in piedi dai “quattro venti”, ma già sul Financial Times del 12 Aprile, un articolo trasformava l’ennesima pagliacciata, il viaggio di Johnson a Kiev, in un grande successo di politica estera.

Ora che la pandemia è passata, l’emergenza è contenere un contagio molto più insidioso: il Grande Morbo del politicamente corretto e tutti i corollari malati come la cancel culture e la demonizzazione dell’uomo-bianco-eterosessuale. Da anni quello tsunami ideologico si rompe come onde sulle nostre frontiere, e per ironia della sorte il contagio arriva proprio dagli stessi Paesi anglosassoni che ora sembrano voler spingere questo conflitto alle estreme conseguenze.

Forse il senso di colpa che genera quel Grande Morbo ha più a che fare con il passato prossimo e il presente che con il passato remoto: guerre disastrose e ingiustificate, politiche contro l’immigrazione spregiudicate. Recentemente Boris Johnson ha proposto di trasferire in Rwanda tutti i richiedenti asilo entrati in Inghilterra illegalmente. Se a esprimere una simile bestialità fosse un destrorso italico, ne uscirebbe politicamente morto, e nessun articolo sul nostro principale giornale potrebbe resuscitarlo.

La tradizione democratica anglosassone ha salvato gli europei dal nazismo e dal comunismo, ma non ha una bella cera. Il fatto che, a elezioni alterne, in America e Inghilterra vengano eletti personaggi che al posto dei capelli hanno il gatto morto di Schrödinger, dovrebbe spingerci ad emanciparci dalla loro influenza, dando vita magari una confederazione europea più piccola all’interno della zona euro. Il miglior modo per permettere ai nostri amici anglofoni di guarire dal Grande Morbo è evitare di rimanerne contagiati, mostrando loro che si può continuare ad essere civili senza tornare ogni volta all’invenzione della ruota, magari rinnegandola.

 

L’immagine su questo blog è di Deborah Joy Bormann @deborahjoybormann.

Deborah nasce a Trieste, città di confine, da padre statunitense e madre spagnola. Vive a Bologna, Pisa, Amsterdam, Madrid, San Francisco. Una serie di coincidenze e passioni la porta a Torino, oramai città d’adozione.
Spirito indipendente, visionario e… disperatamente ottimista.
Madre, compagna, insegnante, arteterapeuta e artista.
Da sempre adora leggere, scrivere, pensare e creare.

Le idee espresse da Andrea nei suoi articoli non rappresentano necessariamente le opinioni e le convinzioni di Deborah.
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