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09Giu 23
Al lupo! Al lupo!
«Urlate piano!» Si raccomandava negli anni Settanta la mamma di un amico di mio fratello, quando l’orda di unni-baby-boomer amici di suo figlio invadevano la casa. Possiamo alzare o abbassare il volume della voce, ma una volta emesso il massimo urlo, quello resta. L’urlo di Munch è unico in qualsiasi circostanza.
Così come il grido di allarme, anche le parole sono sempre a rischio di inflazione galoppante (troppe parole che inseguono allarmi troppo esigui), specialmente davanti a un’innovazione tecnologica che minaccia di stravolgere la nostra vita. Gli effetti della tecnologia sono esponenziali, mentre le parole di allarme raggiungono picchi che alla fine si equivalgono e si annullano: insomma, il classico «Al lupo! Al lupo!».
L’ultimo allarme in ordine di tempo è seguito all’annuncio della ChatGPT il 30 Novembre scorso. Sembrava una conferenza ordinaria sugli sviluppi futuri dell’intelligenza artificiale. Nessuno degli addetti ai lavori immaginava che il pandemonio fosse imminente.
La cosa divertente è che il nostro “urlo di Munch” odierno per l’avvento dell’intelligenza artificiale non è molto differente da quello espresso da uno stimato scrittore a metà del ventesimo secolo, insofferente per la diffusione della radio di massa. Quelle che seguono sono le parole di Giuseppe Prezzolini, allora sessantacinquenne, su La Stampa del 10 Dicembre 1947:
«Quando ci sarà la radio da per tutto, anche in chiesa ed a scuola, bisognerà ricominciare da capo a creare delle case o delle città dove la radio non sia ammessa (…) L’ultima ondata è venuta con la fabbricazione a buon mercato di radio portatili. Non c’è bamberotto o sgonnellatrice di quindici anni che non se la porti dietro in tramvai, in omnibus o in ferrovia, nelle sale d’aspetto dei dentisti e degli ospedali, e col capino appoggiato sulla bocca dell’ordigno stia immerso ad ascoltare i languori delle canzoni, le stecche fatte ad arte della musica moderna, gli stridori del jazz (…) Si lasciano ipnotizzare da queste voci, che ripetono le rime più comuni con gli accenti più disperati e si vede nelle loro facce un vuoto assoluto, un bisogno di sentirsi cullare e addormentare, con l’animo pronto ad abbandonarsi a qualunque ritmo prometta l’annullamento mentale. Se un giorno si studierà il contributo della radio all’imbecillità, credo che si riscontrerà esser stato formidabile (…)».
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