Donald Trump

Che cosa sta accadendo all’Occidente? E davvero gli Stati Uniti d’America si starebbero preparando a salutare il ruolo di guida di un complesso di alleanze che, de facto o de iure, dura dal 1945, come certa stampa e politica vanno gabellando? Come al solito è bene scindere e separare quelli che sono gli annunci clamorosi di una politica che, ormai, è soprattutto spettacolo (politainment), essendosi compenetrata totalmente con il mondo dei media, social e non, e quella che è la realtà delle cose. I dazi annunciati ieri dal presidente americano Donald Trump ed entrati immediatamente in vigore, colpendo soprattutto (ma non solo) la Repubblica Popolare Cinese e l’Unione Europea, l’umiliazione del presidente ucraino Volodymyr Zelensky in diretta televisiva mondiale nel corso delle difficili trattative per una tregua il suo Paese e la Russia, così come il pasticcio del video “Trump Gaza“, in cui la striscia palestinese veniva immaginata come un resort di lusso, con tanto di Netanyahu in costume da bagno, non sono follia ma, probabilmente, solo il volto eclatante di quella che, per il tycoon di New York, assurto per la seconda volta alla guida della Casa Bianca, è una prassi negoziale spregiudicata e ispirata al mondo senza scrupoli del business, da yuppie anni Ottanta. Una prassi che, come sempre avviene nell’ambito della diplomazia, si basa sulla triade dialettica tesi-antitesi-sintesi, solo con uno stile molto più aggressivo e irrituale.

Nei fatti, però, l’America rimane saldamente ancorata al suo ruolo. Solo un esempio: se l’Europa si riarma investendo centinaia di miliardi di dollari, spaventata dalla (apparente?) accondiscendenza di Trump e della sua Amministrazione verso il Cremlino sulla questione ucraina, questo non va contro i desiderata di “The Donald“, anzi. Come ha appena confermato il segretario di Stato americano Marco Rubio, “gli Stati Uniti resteranno nella Nato e anzi sono più attivi che mai”, solo che pretendono che gli alleati europei incrementino il loro impegno, arrivando all’obiettivo del 5% del PIL investito in difesa. Questo perché, nell’idea di Trump e del suo entourage, ma anche di parte dello Stato profondo americano, l’America deve distogliere l’attenzione dal contesto europeo (dove la Russia di Putin non è considerata una reale minaccia, soprattutto dopo la difficile campagna contro Kiev) e concentrarla invece sul Pacifico e sul containment della Cina e la sorveglianza delle rotte marittime. Che passa anche dagli stretti: in questo caso la collaborazione tra Trump e il Deep State americano si vede nella disponibilità già mostrata dal gigante finanziario Blackrock per il tentativo di acquisire infrastrutture portuali strategiche (in mano cinese) nel canale di Panama.

Se l’America, con Trump, non rinuncia e non vuole rinunciare al suo ruolo di egemone (anzi, rilancia, come con le mire sulla Groenlandia per il controllo dell’Artico), quello che, piuttosto, è reale, è l’emergente “guerra civile a bassa intensità” che, dalla Francia, con il caso Le Pen (ottimamente analizzato su Affaritaliani.it dall’ex europarlamentare Vincenzo Sofo), all’Ungheria attraversa tutto l’Occidente allargato, lungo la linea di faglia tra mondialisti-progressisti, da un lato, e conservatori dall’altro. Come si è già avuto modo di scrivere da queste colonne, la parte di élite americana e occidentale che sostiene Trump, infatti, ritiene la retorica progressista, liberale e mondialista che sottintende (e in maniera sempre più esplicita) organismi quali le Nazioni Unite, la NATO e l’Unione Europea così come contesti più elitari (il WEF e altri), oltre a fungere da retroterra ideologico della globalizzazione, come un ostacolo più che un veicolo della potenza americana. Che (nell’idea di Trump e dei suoi) può tornare a risplendere liberandosi di una zavorra ideologica che l’ha indebolita e sostituendola con una politica imperiale più brutale, pragmatica ed efficace. Da questo conflitto, appena abbozzato durante la prima amministrazione Trump, derivano scelte quali la cancellazione dei programmi USAID. Con Trump l’America rinuncia, insomma, alla pedagogia demo-progressista e liberale del mondo (quella delle “esportazioni di democrazia”) per poterlo dominare (“L’ordine globale del dopoguerra non è solo obsoleto; ora è un’arma usata contro di noi, ha detto sempre Marco Rubio). Di fronte a questo approccio, l’élite al governo dell’UE, invece saldamente ancorata alla visione progressista, sta reagendo in maniera dir poco scomposta, pretendendo e rivendicando una centralità e un ruolo (come nel caso delle trattative per l’Ucraina) che lei per prima, nell’era Biden, non ha mai voluto, adottando un’atteggiamento più che servile (a voler essere pacati) nei confronti di Washington. Una rivendicazione postuma e tardiva, dunque, che appare insincera.

La postura bellicista nei confronti della Russia, vista come nazione “alleata” di Trump nella lotta al globalismo occidentale (quando invece è forse questa l’unica reale convergenza tra Mosca e Washington), da parte di Bruxelles e di Londra al suo fianco (o, per meglio dire, alla sua testa), non ha quindi nulla di serio e pragmatico (il Cremlino, stante quanto visto dal 24 febbraio 2022 a oggi e al netto delle testate nucleari, non può di certo “invadere l’Europa”) ma è, piuttosto, un atto ideologico (e, come tale, molto pericoloso, la storia dovrebbe insegnarlo) che deriva dal percepire Putin  come un nemico più metapolitico che geopolitico.

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