Ma i giovani italiani s’impegnano per il loro Paese?
Forse la tessera nel portafoglio ha stancato e, forse, anche il partito e la riunione serale, il sermone del segretario. Basta avere un buon router ed ecco qua che la rivoluzione ha inizio e l’aggregazione diventa globale e trasversale. Guai a tirar fuori Evola o Gramsci così, in mezzo alla strada, se non si vuole essere investiti dal peggior insulto che un giovanotto possa sentirsi recapitare: giovane vecchio. I ragazzi, oggi, ci tengono ad essere presi esattamente per quello che sono e non vogliono essere confusi con i tempi che furono. Hanno chiuso le sezioni e, buttate via le chiavi, sono alle prese con la rielaborazione dei significati: connessione, comunità, impegno, sociale; tranquilli, sono tutti termini che rimangono ancora ma mutano nella funzione, nella struttura; poi ce ne sono degli altri messi in soffitta, superati, vedasi lotta e, soprattutto, militanza.
Ma i giovani italiani di oggi, come s’impegnano per il loro capriccioso Paese? Lo fanno ancora o non più? S’interessano alle vicende della cosa pubblica o le rifiutano per principio? Partecipano alla vita sociale, politica e culturale o, colti da istinto voyeurista, stanno dietro alle persiane a guardare il mondo, giunto a velocità siderali, intrecciarsi ed arrovellarsi? Quali sono i loro luoghi di battaglia?
In principio fu la piazza, quella vera. La strada. L’appuntamento in sede, la raccolta del materiale, l’organizzazione
dei ruoli. I più famigerati al servizio d’ordine, gli altri, quelli bravi a parlare, al megafono, al volantinaggio, al lancio degli slogan. A scuola, e all’Università. All’ora di pranzo e a quella di cena. Tra l’eskimo e il ray ban d’ordinanza, tra la cravatta e il capello lungo, tra una fede ed una visione del mondo. Il ciclostile in una mano, il libro nell’altra, parafrasando i Negrita. Un loop continuo. Era l’epoca della partecipazione fisica come forma di dovere civico, sentimentale, dell’aggregazione viscerale, della militanza totale. Collettiva. Acne e ideologia, pane e attivismo e veniva su la generazione che poi, una volta maturata, avrebbe rifornito il futuro prossimo. Ma nell’era della globalizzazione, del mito del progresso, è avvenuto il sorpasso definitivo – con tanto di pernacchione – : è in atto il superamento dell’idea militante vecchio stile, nella sua veste di un esercizio complessivo, d’anima e corpo, quella, per sua natura, dinamica, appassionata.
Certo, l’idea diventa azione ancora oggi, parafrasando Ezra Pound , ma qualcosa è profondamente cambiato.
“La generazione Z e la Y (la Millenial Generation, che comprende i nati tra gli anni ’80 e i primi anni del 2000 ndr) non si riconoscono nella gerarchia della struttura di politica attiva, tradizionale in Italia, ovvero partiti e sindacati […] pertanto, inserirei la crisi del sistema di partecipazione politica nei partiti da parte dei giovani nel più ampio tema sulla crisi della rappresentanza “ufficiale.
[…]C’è, insomma, poca mobilità sociale in politica. In questo contesto, il giovane che voglia iniziare la sua attività politica senza avere il “capitale culturale”, una rete di conoscenze favorevole, non può perché si vede rimbalzato dagli organi ufficiali”. Così Lorenza Antonucci, Lecturer in Social Policy presso la School of Social Sciences della University of the West of Scotland, in un’intervista di un paio di anni fa per L’Epresso.
Che ne sarà di una generazione alle prese con il superamento delle ideologie canoniche, con il rifiuto delle gerarchie politiche, di strutture tradizionali, dunque, e l’esplosione della piena mentalità digitale? Insomma, cosa resterà di questi anni ’80?
Al bando gli accessori vintage.
Lo scenario è nitido. Il nostrano universo politico si avvicina sempre più alla concezione di una grande SpA a cielo aperto, senz’anima e nella quasi esclusiva direzione del profitto, in cui soci fortemente differenti per natura arrivano a compromessi e legami un tempo impensabili operando per la mera spartizione del territorio e per l’affermazione dei propri alfieri, mai come oggi; un meccanismo che genera lacune visibili e scenari spesso invivibili, con fortissime ricadute esterne.
In un nugolo di sondaggi, colpi di oscenità e crociate per l’innalzamento del gradimento, la sfiducia popolare verso questo modo di intendere la gestione della cosa pubblica è crescente – c’era da aspettarselo – come testimoniato dal “Rapporto Italia” , di inizio anno, elaborato dall’Eurispes: “il tasso di disaffezione degli italiani verso le istituzioni tocca livelli alti, il 69,4 %. L’intreccio tra crisi politica, crisi economica e crisi sociale ha determinato l’affermarsi di un’atmosfera di insicurezza e di disagio profondi e il diffondersi di uno stato d’animo complessivo che apre larghi spazi al timore del futuro”.
Fermi lì a guardare, ci sono i nostri ragazzi, coinvolti in questo regresso virtuoso.
“Zitti, parla Buontempo!”, “Tutti qua che fra poco parla Berlinguer”. In principio erano i centomila di Piazza del Popolo, assiepati su qualsiasi trespolo disponibile. Sui lampioni, infilati in ogni pertugio, pur di stare lì a sentire, di riempirsi di suggestioni retoriche, pronti a rispondere al richiamo del corno, al carisma del leader, all’idea; labari, stendardi, bandiere come militi-studenti, soldati-operai, fanti-impiegati delle Poste, un esercito di fratelli sconosciuti ma uniti. Un tempio alla mistica dell’azione, elemento irrinunciabile. Esserci significava esistere, contribuire. Non esserci, disonorarsi. E allora bisognava rinforzare le fila.
Si generava la comunità di uomini ed idee, il movimento a partire da una cultura fondante e diversificata. Padri e pionieri, teorie, visioni sociali e filosofiche. Speranza e passione. Eredità e trasmissione.
Ieri i centomila di Piazza del Popolo, oggi il milione di Salvini e i cinquecentomila di Grillo, gli ottantamila della pagina, i settantamila del profilo. Dalla piazza reale a quella virtuale. La montagna va da Maometto, in pantofole e tablet, gli si infila dentro casa, su uno schermo, ed è bulimia di informazione in tempo talmente reale da esser quasi preveggenza.
Esserci significa esistere, non esserci, che il modem è rotto. Alla conta dunque, non più alla pugna, e non solo quando si chiudono le urne.
E i giovani italiani?
Più comunitari dei loro padri, ma solo virtualmente, per necessità ribelli, insofferenti, pensano a dotarsi di un futuro certo, a lavorare per lavorare, a riempire il portfolio, capire il senso di una laurea, a non prender un bel calcio nel curriculum; a combattere per la creazione di una propria funzione ed identità sociale reale, in una visione alla “si salvi chi può”. La spinta individualistica è forte e quella collettivistica si rafforza di riflesso, unisce per parità di condizione, non più per un’immagine specifica del mondo che poggia su pilastri, su un determinato pacchetto valoriale, morale, etico, che poi va a confluire naturalmente in un contenitore con proprie idee e finalità. Ed ecco il “Je Suis”, recitato come un mantra dopo l’attentato di Parigi, ecco il fervore uniforme verso il referendum greco. Ecco la compattezza verso le minacce del terrorismo. Ecco l’insofferenza verso l’Europa, percepita come uno sbocco per uscire dalla propria terra, per concretizzare la strada verso il lavoro possibile.
I giovani italiani non vedono più l’Europa come un “progetto futuro”. Secondo un sondaggio dell’Istituto Toniolo, essi hanno perso fiducia nell’Europa: il 58% di loro ritiene che l’UE sia un esperimento fallito. Solo per citare un esempio recentissimo.
Pare che i nostri ragazzi non abbiano più tempo da dedicare ad una sovrastruttura che indichi quale strada perseguire e così il complesso strutturato nel tempo di idee e proiezioni storiche, filosofiche, sociologiche, letterarie ed, ovviamente politiche, sembra costituire per loro una sorta di surplus non più fondamentale, rispetto a prima. Quasi una distrazione.
Nell’epoca della velocità, della sintesi estrema un passaggio andava eliminato.
Leggono poco (Mazzantini e Saviano, non valgono…), strillano e scrivono molto. A cavallo tra l’Autarca che basta a se stesso, che ha raggiunto la condizione dell’autosufficienza e quindi la saggezza e la felicità e l’Anarca di Jünger, in cui vive la sovranità dell’individuo, il rifiuto del potere, la volontà di una forma di padronanza eroica di se stessi e l’assenza di uno spirito preponderante di appartenenza ad una ideologia esatta. Sempre in bilico tra la preoccupazione di farcela che affievolisce la passione per la inquadramento e l’accende per una battaglia personale verso questo sistema sociale ed economico.
Insomma il Fronte, la Federazione, e, come loro, anche altri emblemi dal sapore eroico e retrò, contenitori di vita, non esistono più. Ma i loro eredi dove sono finiti? Sicuramente tra i banchi della Camera o del Senato, al più, in qualche redazione, a fare il medico a Bergamo o l’editore a Pescara. E le loro eredità? Quel complesso sistema di indagini sociali, di sperimentazioni editoriali e culturali, quelle letture della contemporaneità, quei modelli politici alla ricerca di avanguardie possibili, di strutture e costrutti nati per contaminare il tempo e lo spazio?
Sembrano non aver lasciato traccia se non nel cuore e nella memoria di qualcuno e nelle scelte di alcune nuove leve della generazione Y che, ancora oggi, rileggono il presente e studiano il passato, si battono all’interno di formazioni politiche giovanili a costo di sacrifici interni ed esterni, economici, che ancora oggi non mollano e vogliono essere protagonisti di un nuovo pensiero, mantenendo posizioni ideali esatte, seppur ammodernate. Loro li troverai ancora, giorno per giorno, a montare il gazebo sotto il sole d’Agosto, a valutare quale tipografia possa fare il prezzo più conveniente per i duemila volantini da stampare, a battersi per il loro quartiere ed il loro Paese. Li scoverai laddove l’idea è più forte. Ma, nonostante il buon senso ed il buon esempio, sono lontani oggi dall’essere maggioranza tra la gioventù.
Il modello della “giovanile” funziona a stento, tenuto in vita come simbolo, quasi come diritto statutario perché tanto, in qualche articolo sul finale di ogni statuto
partitico, la voce “movimento giovanile” compare comunque. Quattro righe a certificarne l’esistenza, sempre più rari contributi economici, zero formazione – da non intendersi come amaro indottrinamento dogmatico ma come costruzione e concepimento di una propria capacità di analisi e ragionamento culturale e politico – , radicamento di correnti e contro correnti, capi e contro capi, burocrazia e poca meritocrazia. Insomma se le giovanili esistono solo sulla carta o poco più, se hanno perso concretamente il potere aggregante e di penetrazione sociale, se è giunta l’epoca del (probabile) fallimento ufficiale dei movimenti giovanili, cosa succede?
I riferimenti si cercano altrove.
La svolta epocale di una generazione che, evidentemente, non vuole tanto dar retta ai sermoni ed alle teorie classiche e complesse, squattrinata, sempre in crisi come la sua terra, speranzosa e generosa ma con grande sfiducia verso il futuro e questo presente, passa per l’ avvento di strutture e modalità fresche, innovative, al passo coi tempi, e la necessità di una sintesi che generi nuova forma d’impegno civile, più schietta, che liberi i pensieri dei nostri ragazzi, si fa impellente. Parte di questa rivoluzione in atto ha genesi con l’affermazione del Movimento 5 Stelle e l’arrivo sul mercato di modelli aggreganti simili, che accomunano perfettamente la volontà del superamento dicotomico per eccellenza, destra-sinistra, l’universo digitale, obiettivi mirati, un linguaggio semplice, iniziative efficaci, sviluppando la capacità comunicativa e sentimentale di sbattere il mostro in prima pagina, coinvolgendo il popolo ancor meglio del miglior socialismo. L’operazione svecchiamento coinvolge, tuttavia, tutto il mondo politico. Dal Pd senza cravatta, dal progressismo facile e dalla parlata sciolta, alla grinta salviniana, condita da una felpa sempre diversa, fino al centro destra, liberatosi di radicamenti storici e culturali ritenuti eccessivi.
Insomma, meno noie, meno sbattimento e più azione ma a rimetterci vi è la formazione umana e culturale delle nuove leve. La militanza diventa impegno “disimpegnato” da schemi eccessivamente complessi e non viene più dettata dalla trasmissione, da eredità condivise ma dalla contingenza, dalla capacità di reagire ai tempi. E la gioventù si riorganizza con gli strumenti del suo tempo. Si ridisegna il senso di appartenenza ad un ideale di pubblico dominio, .it, e di rottura con le logiche precedenti, pur sempre, ovviamente, nutrito da incipit indivuali.
Dal volantino al post, dal ciclostile al blog, dalla sezione alla pagina su un social o all’associazione, una delle possibili chiavi di interpretazione.
Si spopola la piazza e si riempiono le immense riserve dei social network. Velocemente, gratuitamente si apre una pagina Facebook, si genera un account Twitter; si inanellano hashtag per lanciare il tema; si legge l’attualità e, magari, ci si riprende, si fa un video, lo si carica su youtube, lo si posta sui social e si reagisce, alla ricerca della barricata del giorno, affrontando la contingenza, senza troppi fronzoli. La solidarietà è massima e muta forma. Non più braccia strette avanzando nel corteo ma un like, un retweet, un commento, una condivisione genera la catena e si esce di rado, per azioni congiunte, di disturbo, sotto i centri del potere o al richiamo del capo che, nel frattempo, deve dare prova di forza.
Ma l’impegno civile, politico dei nostri ragazzi è riducibile ad un “segnaposto esistenziale”, come lo definisce Nathan Jurgenson, social media theorist e ricercatore presso Snapchat, a pagine e gruppi su un social network in cui esserci per essere identificati anche esternamente, per avere memoria di contatti e volti?
C’è sempre tempo per recuperare il meglio del passato, magari basta scaricarlo in pdf, e poi, però, leggerlo insieme sul muretto del quartiere, quello di sempre.