Onore all’avversario Ingrao
È quando si spengono gli uomini che si accende la storia. Seppure fosse il faro dell’altro lato del mondo, rispetto a quella che io vivo come casa, come via, è impossibile non rendersi conto che la dipartita di Pietro Ingrao lascia riflettere anche noi che siamo al di qua di qualcosa che è all’al di là tra quella che un tempo era sinistra e destra. Finché qualcuno non lascia questo mondo, non misuri mai al centimetro il divario, l’assenza. Percepisci il passato divenire di colpo presente ed il presente traspone nel futuro. E se sarà questo presente italiano a costituire il nostro prossimo futuro, allora anche io, piango (provocatoriamente) Pietro Ingrao, centenne, figura storica del PCI, ex presidente della Camera dei Deputati nei mesi dell’omicidio Moro, ex direttore de L’Unità.
Piango (provocatoriamente) Ingrao – non prima certamente di aver pianto tanti miei padri – perché in quelli come lui riconosci l’altra metà. L’hai sentita citare quando ti insegnavano, hai cercato di inquadrarla quando crescevi. È morto un vero comunista, ultimo di quella stirpe che si toglieva il cappello in Chiesa, che avresti chiamato, degnamente, avversari. Che avevano un’idea viva, per quanto “la loro”, ma tale. Un’entità capace di proiettare un’ombra storica, quantomeno.
Si può ‘perdonare’ il suo marxismo, finanche il suo antifascismo, non gli si può perdonare la benevolenza verso i carri sovietici che frantumavano con i cingoli la libertà del popolo ungherese. Eppure, è per la purezza di un’idea coltivata ed inseguita per tutta una vita, per quanto aliena a chi batte sui tasti, che in quelli come lui puoi riconoscere l’antitesi, l’avversario, la casa di fronte. C’erano quei comunisti che si toglievano il cappello in Chiesa, come in Don Camillo e l’onorevole Peppone, poi c’è oggi. C’è Matteo Renzi e Laura Boldrini, poi altri, c’è il caos umano ed ideologico.
Dalla stirpe alla casta. Dal dettaglio alla catasta.
Così osservi gli uomini dei tuoi tempi, reggere il trono, passare e non lasciare il segno, vederli succedere, come accadere e come trascorrere. Punto. Impossessati dall’evanescenza li vedi correre rinnegando padri e radici, camaleontici, cambiare colore, polimorfi, mutare forma per entrare in spazi piccoli come loro. Ti corre alla mente il trasformismo, la forsennata sospensione della democrazia. Pensi al marketing che ha infestato la gestione della polis, ai facili sputtanamenti, alla disgregazione dei confini economici e geografici di questa terra, alla disconoscenza della coscienza nazionale. Te li immagini sull’attenti quando giunge la chiamata della cancelliera tedesca, sordi ai giovani senza lavoro, ai suicidi, alle famiglie, pronti a rispondere al richiamo dell’alta finanza. Non li immagini saggi né romanzieri, non li senti ragionare sopra le cose, né difendere la sovranità. Ne distingui a fatica i tratti politici, figuriamoci culturali; percepisci quella viltà istituzionale causata dall’estremo moderatismo, il medesimo che impedisce di prendere una posizione, che annulla la credibilità, soprattutto fuori dai confini nazionali, che spazza via la residua dignità di questo Paese.
Pensi a questo governo. Di più, a questa classe politica né avversaria, né nemica ma con la pretesa di essere erede degli Ingrao, con una mano, di cancellarne la funzione, in un delirio di modernismo ed ingratitudine, con l’altra. Né avversaria, né nemica. Incolore, frigida.
Troppo forte l’assenza dell’eleganza, dello stile. Il senso della gente in difficoltà. Il senso dell’investitura.
Non un facile ed inconcepibile elogio dell’Ingrao comunista, antifascista, partigiano. Figuriamoci. Non una lode allo scrittore, al visionario, al poeta.
Solo l’onore delle armi ad un avversario, alla faccia della perversione e della promiscuità.