creazione_adamoDalla scalinata di Trinità dei Monti a Roma restaurata con i soldi di Bulgari ai “crolli” di Pompei.

Riflettere, salvare. Investire.

L’Italia e la sua eredità più grande.

Il patrimonio, quel patrimonio è già nostro: che senso avrebbe metterlo sul mercato o, ancor peggio, svenderlo, demistificandolo, sminuendolo? Nell’epoca del marketing militante, su questa domanda si apre il cielo, si dividono il pubblico pensiero e le opinioni degli esperti. Si genera una diatriba vecchia come l’Italia. L’essenza della nostra storia artistica, quell’incalcolabile patrimonio culturale e paesaggistico da rievocare e mettere a regime dovrebbero essere in mano al pubblico, al privato o ad entrambi? Qual è la strada per andare in paradiso?

Un interrogativo da un milione di dollari, anzi, ben di più; eppure, qualcuno, ha le idee chiare. “La religione del mercato sta imponendo al patrimonio culturale il dogma della privatizzazione. Ma se l’arte e il paesaggio italiani perderanno la loro funzione pubblica, tutti avremo meno libertà, uguaglianza, democrazia. L’alternativa è rendere
lo Stato efficiente. Ma non basta: dobbiamo costruire uno Stato giusto”. Così Tomaso Montanari  quarantaquattrenne storico dell’arte e critico d’arte –  ha sbattuto il mostro in prima pagina, in tutti i
sensi; su questo monolite ideale, più simile ad un manifesto, poggia l’incipit di “Privati del patrimonio” (Einaudi, pgg. 172, 2015), ultima fatica letteraria dell’autore. Un libro/denuncia che riflette
su una questione spinosa ed urgente, senza scadere nel luogo comune, che ci spiega perché il governo pubblico dei beni culturali, basato sul sistema delle soprintendenze, vada salvato e difeso dalle avances della “religione neoliberista”.

L’Italia ospita ben 49 siti “Patrimonio dell’umanità”, più di ogni altro Paese al mondo ed i beni culturali censiti dal 1234780463782_Cartina-ItaliaMuseiMibac sono più di 33 ogni 100 km/2. Nonostante ciò, è tra i Paesi che spendono meno per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale, paesaggistico compreso, come ci rivela il rapporto BES 2014 dell’Istat. La
Costituzione parla chiaro: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Eppure i risultati, all’atto pratico, raccontano di trascuratezza, di imprecisioni palesi.
Gli anni passano, la burocrazia e le tavole rotonde aumentano ed il nostro patrimonio invecchia. Dai voli pindarici ai convegni istituzionali, fino alle messianiche dichiarazioni del politico di turno, la tutela e la gestione della nostra più grande ricchezza nazionale rischiano di diventare una patata bollente da passare nelle mani di qualcun altro. Ma di chi? L’ovvietà è servita: dell’universo dei privati e di “un’economia parassitaria”; volontà che si rinnova
anche oggi, come ricordato dallo stesso autore, nelle intenzione renziane: “Quando dico che si mangia con la cultura dico che, allora, bisogna anche avere il coraggio di aprirsi agli investimenti privati nella cultura”

Qui, la sorgente dell’inchiesta di Montanari da cui sgorgano precisi interrogativi, come si astrae facilmente dalla premessa: “Quando si parla della “cultura” in cui far entrare questi miracolosi risanatori, di cosa parliamo, esattamente? Di produzione culturale o di patrimonio culturale? […] del poco che può produrre reddito, o del moltissimo che non potrà mai farlo? E siamo certi di sapere chi valorizza cosa? Sono davvero i privati a valorizzare il patrimonio? O non è il patrimonio che valorizza i loro bilanci?” (e su tutte) “E affidarsi ai privati significa davvero ‘aprire’ il patrimonio a tutti, contro un presunto elitarismo dei tecnici, o significa consegnarlo a pochi, e dunque
chiuderlo ancora di più?”.

Della serie “non ci sono più scuse”. Insomma qualcuno dovrà pur rispondere.

Un libro che afferma e s’interroga, al contempo, quello di Montanari, che non chiude ai privati nella cogestione del nostro patrimonio culturale – “Questo non vuol dire che non ci sia spazio per un impegno dei privati: al fianco, e non al posto, dello Stato” –  ma che, nelle pagine, tenta di immaginare un limite al culto sfrenato del neoliberismo, che ormai laicissimo e scaltro, conquista pezzo per pezzo l’Occidente: “[…] da più di trent’anni il leitmotiv del pensiero
unico dominante in Occidente è che la modernizzazione coincide con la progressiva scomparsa dello Stato […] l’ideologia neoliberista è diventata sempre più fondamentalista, assomigliando a una religione”.
Come dargli torto?

E su dati, dichiarazioni e riflessioni, tra ieri e oggi, si sviluppa una strada ben precisa. Ne nasce la suggestione del “ritorno”, tra le parole di “Privati del patrimonio”, del nuovo possesso di una ricchezza dal valore incalcolabile, da vivere per il futuro non come una semplice eredità stantia. Da qui la voglia di uno “Stato giusto”
che ritrovi e rinnovi se stesso, che sappia come intervenire, che parli alla sua gente e della sua gente, rendendola nuovamente abile a fondersi e riconoscersi con il suo patrimonio, con la sua essenza animosa, ristabilendo un ponte spirituale: “[…] la conoscenza è l’unica medicina capace di curare, fermare, forse vincere questa epidemia di disumanizzazione. E la conoscenza del patrimonio culturale è una parte di questa conoscenza […] se sottoporremo alla legge del mercato anche questa medicina, avremo una speranza di meno”.

Modernità: la sfida è servita

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