In questi tempi snaturanti ed invasivi, più nulla è da dare per scontato. Tutti fermi al loro posto, a svolgere un compitino, badando a non oltrepassare gli steccati della decenza, ad essere soldatini della “correttezza”.

Zalone non fa filosofia, Zalone non è un museo aperto che fa grandi numeri, non è la ripresa economica, Zalone non è un’opera del Mantegna, né il nuovo Masaniello: Zalone è una valvola di sfogo, fa ridere e questo, adesso, non è poco.

Beato chi riesce ancora a prendersi per il culo, a farsi una risata di cuore, riflettendo. Sedersi su una comoda poltrona e tornare alla piacevole leggerezza dell’essere, d’altronde “Il riso è il profumo della vita in un popolo civile”, parola di Aldo Palazzeschi, mica mia. Ecco, probabilmente, la vera vittoria di Checco Zalone. Troppo calvo per essere un intellettuale, troppo arguto per essere un imbecille. Così, Dio benedica la risata – per carità, visti i tempi, prima che mi accusino di razzismo intergalattico, va bene anche qualsiasi divinità o essere superiore (per i più materialisti va bene anche un bonsai) -. Forse in questo mare magnum di ragionamenti sopra le cose, di dottori nel tempio o di complottari, a muovere i piccoli uomini è solo la magnetica semplicità che scardina i sistemi complessi, come un attraente desiderio inconscio, come uno stato di necessità primordiale, chissà. Sta di fatto che, tornando con i piedi sotto la scrivania, forse c’è solo bisogno di ridere, in questa tristissima Italia, landa disperata, e noi, in questo, siamo maestri. Il finto pirla/tanto italiano di Checco Zalone o il Sordi di Un borghese piccolo piccolo, il Totò che si infila gli spaghetti nelle tasche o il Carlo Verdone di Mimmo, di Furio e di Ivano; chiunque ci abbia fatto dimenticare il tempo trascorso ad essere italiani proprio mentre ci ricordava cosa significhi esserlo, ha vinto. Ha vinto al botteghino, ha vinto nel cuore e nel colore, ha vinto sul tempo; ha generato tradizione ben più di ogni sermone, ahimè, ha fatto epoca e generazione. Tant’è che ti ritrovi a cercare, in una delle possibili italie delle virtù che furono, proprio Verdone o Sordi sul canale la sera di Natale più che sprazzi di morale (passata) o un senso culturale, a questo Paese.

Zalone, come i suoi predecessori, trionfa nell’anima del popolo più duro che c’è, tragicomico eppure autoironico, permaloso e vendicativo. Più di una laicissima formula d’esorcismo ideologico, più di un pippone moralistico, ben più di ogni teoria di filosofia politica e di ogni rendez-vous tra intellettuali. Se poi in due ore scarse c’è anche il coraggio di affrontare i cavilli, i vizi ed i guai di questa terra, anziché di infilarci in mezzo culi, tette, battute tristissime, pessime capacità recitative  ed una storia demenziale di tradimenti e denari facili, allora tanto di cappello. Più Zalone, meno Cinepanettone: quella è l’Italia che ride, l’altra l’Italia che raglia.

In definitiva, Checco inietta positività e serenità a questo corpo morto, frigido, insensibile; nell’epoca del trasformismo e dell’opportunismo da un nome alle cose, nell’epoca del dinamismo va a scovare le zavorre e le evidenzia, nell’epoca della serietà schizofrenica, in cui ogni benedetta cosa pare costituire un problema, rompere il protocollo, dare fastidio, in cui ogni approfondimento spirituale, o che non sia materiale, pare una disgrazia, lui fa ridere. Serenamente, semplicemente. Lungi dai Bergman, per dirla alla Veneziani, figuriamoci da Machiavelli o, che so, dai Tommaso Campanella.

Ho voglia di ridere, magari asciugandomi un paio di lacrimucce salatissime, ma ho voglia di farlo..

Forse anche gli italiani ne hanno voglia…