C’era una volta Jan Palach. Lo racconteremo come una favola, perché se ne addolcisca il ricordo e rimanga leggero, perché sia piacevole parlarne e si smussi il dolore.

La sua generazione, e quella prima di lui, poi le successive, fino alla nostra, l’odierna. Dal trionfo nazionale al tonfo capitale. La metamorfosi, i segni della putrefazione, dal vitalismo al nichilismo solo andata. Speriamo nel Ritorno.

C’era una volta chi si dedicava l’esistenza, percorrendola, interpretandola, cavalcando le innumerevoli tigri della gioventù, e lo faceva lucidamente e consapevolmente, trovando un approdo sicuro in una lotta animata e muscolare, per l’affermazione della sovranità, senso imprescindibile per chi si ammanta di una certa identità. Jan Palach. Ancora arde il suo spirito in quella Piazza S.Venceslao, a Praga, il 16 gennaio del 1969. Ancora si sente l’odore acre del suicidio di un giovane martire europeo che vedeva una nuova speranza in una nuova primavera, repressa dall’aberrazione sovietica, da quel immenso cuscino al cloroformio sui volti delle generazioni libere. Un giovane vivo e cosciente. Tutto qui, nulla di santo e filosofico, etereo o irraggiungibile. E quell’estremo gesto, la decisione di darsi fuoco sulle scale del Museo Nazionale di Praga, quell’idea che montava in lui, giorno dopo giorno, ragionata, ponderata, macinando sentimenti, tra una lezione e l’altra all’Università, quel normale approccio non conforme, che fungeva da barricata di chiodi e legno verso chi spingeva per un’intensiva e frettolosa massificazione, verso chi imponeva silenzio alle libertà di una nazione, per chi plasmava con la violenza l’egemonia. Un gesto simbolo di una sanità generazionale. Un esempio di sacrificio combattente per quell’Europa.

La bella morte, la fine eroica, come Mishima, la massima purificazione, amara ambizione, forse anche illogicamente folle, che non trovava consolazione in una fede religiosa, ma confidava nella forza dell’anima, unico residuo di eternità in un mondo e in un corpo finitissimo.

Sogni di rock ‘n roll e guai a chi ci sveglia”, canterebbe oggi il nostro teneramente duro Ligabue. Sono sogni che tramutano in incubo a velocità elevata. Oggi le cose sono cambiate, eccome. Qualcuno sembra aver abituato le nuove leve a lottare per la Patria mondo, un po’ nomade, un po’ “dove c’è Barilla, c’è casa”, per formare le colonne del villaggio globale, in cui tu casa es mi casa, tu cane es mi cane, tu madre es mi madre, tu dinero es mi dinero, tu pericolo es mi pericolo, tu problema es…come il mio, non il mio. E da lì in poi, ecco interi blocchi di gioventù entrati nel Common Village, dotato dei migliori comfort tecnologici, in cui si può essere sempre informati di come va il mondo, senza strapparsi minimamente la bella blusa blu. Sì, ogni tanto qualche imbecille parte a fracassare vetrine o lanciare estintori ma sa che quando tornerà sarà al sicuro, tra un falso mito di libertà ed i titoli del Tg che gli annuncerà che la guerra, quella vera, è lontana, lontana parecchio. Come a Firenze, alla libreria “Il Bargello”, un paio di giorni fa. Completamente distrutta. Con il mondo intorno in piena crisi isterica e un’Italia sodomizzata, c’è ancora chi sfascia le librerie in nome dell’antifascismo, manifestazione platonica di un’insicurezza e di una vacuità mor(t)ale imbarazzante, residuato bellico degenerato e anacronistico. Una flotta di ragazzotti, un misto tra il Klu Klux Klan e i sette nani, V per Vendetta e Manu Chao dopo il concerto, ha pensato bene anche di aggredire l’unica ragazza presente nel locale che, alla Nazione, ha dichiarato: “mi hanno preso per i capelli e soprattutto mi hanno picchiato violenza con una spranga di ferro. Per fortuna sono riuscita a scappare in bagno”.

Farete “la fine di quelli di Acca Larentia”, avrebbero urlato i coraggiosi incappucciati prima di dileguarsi.

Nessuno chiede redenzione, né conversione (non scherziamo…), almeno dignità nel comprendere la realtà comune che degenera verso la decadenza.

Qualcosa, evidentemente, è andato storto.

Così tra annichiliti davanti a Call of Duty, devastatori di librerie, tra europeissimi e giovani volontari della Jihad reclutati sul web, riserve di rivoluzionari da tastiera, indifferenti, non tesserati, mai schierati e un filo pretenziosi barbari giovanotti, mi tengo la favola reale di un giovane che per amor di patria, si diede fuoco sulle scale, chiedendo ai miei coetanei, con la voce rotta dall’amarezza, in un’accorata preghiera, ciò che Albert Camus riuscì, nella sua grandezza, a sintetizzare con lucidità: «Ogni generazione si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse più grande: consiste nell’impedire che il mondo si distrugga».

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