Foibe: pretendiamo di integrare i migranti e le altre culture quando ancora schifiamo e ripudiamo la nostra?
Siamo tutti italiani. Coinquilini nella seconda casa al mare dell’Europa, ma pur sempre italiani, oltre la denominazione geografica. Non saremo certo italiani docg, ma almeno, e per adesso ancora, lo siamo. Dato che ormai la misurazione della nazionalità, da queste parti, si fa in nome del made in Italy, più che di un certo numero di valori e abitudini, di insegnamenti e memorie. Memorie. Il mezzo con cui si eterna la vita, uno dei 10 misuratori fondamentali del grado di civiltà di un Paese. Alzheimer. Siamo tutti italiani, anche oggi, 10 febbraio, Giorno del Ricordo, istituzione per legge, caposaldo della memoria. Ma noi, non ce lo ricordiamo. Non per distrazione, né per la fretta siderale di quest’epoca che ti punge il sedere e provoca un dolore fitto, acuto, che arriva al palato e fa tremare i denti. Ma per una precisa volontà di abdicazione dalle proprie responsabilità di cittadini di una Nazione. Per una precisa volontà di eliminare dei fardelli, di rispondere solo a dei precisi richiami, come i cani addestrati, per la precisa volontà di prendere parte solo all’essenziale, a quell’essenziale che l’egemonia culturale imperante dichiara come tale. Ed è spaventoso, abominevole. Ma non mi spaventa il deputato, il senatore, neanche, forse, il Presidente delle Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, che oggi è a Madrid a colloquiare con il Re di Spagna (olè!) anziché partecipare commosso al ricordo del genocidio di una parte del popolo che rappresenta. Mi spaventano le targhe distrutte, i monumenti per ricordare il dramma imbrattati, mi spaventa l’abitudine alla circostanza, letta velocemente su Google, la superficialità di certi italiani, che dovrebbero essere miei fratelli, nel dire: “dopo la Shoah, anche voi (ma voi chi?) volevate la vostra ricorrenza, vero?”. Mi terrorizza chi organizza convegni dallo spirito negazionista, e chi glieli autorizza, e perfettamente anti-italiano di ieri, di oggi e di domani, come quello tenutosi alla Camera dei Deputati, da SEL e da Alessandra Kersevan, o in altre scuole (leggete qua), in altri luoghi, di una Repubblica che dovrebbe essere sacra per tutti, che dovrebbe, nel 2017, condividersi con tutti, dedicarsi a tutti. E che, sfacciata e adolescente, non lo fa. E che se la tengano, allora, la loro cara Repubblichetta senza spina dorsale! Cadaveri, scheletri, donne, uomini, resti. Foto, video, vigili del fuoco, scale, sacchi di ossa tirati su da un buco. Testimonianze, pianti. Latte buttato sui binari, altri cadaveri. Testimonianze italiane, testimonianze slave. Convegni, dibattiti, ammissioni.
Non bastò, allora, non basta oggi. Oggi che dovrebbe essere l’era della libertà, della maturità.
Ad ogni 10 febbraio mi fermo a riflettere. E mi interrogo, come a scuola. Da solo. Mi fermo a pensare, assorto, attraversato da un profondo e nauseante senso d’ansia, a tutte quelle voci che ti battono in testa, da fuori però, come gli uccelli impazziti di Hitchcock, in una marea fuori controllo, che recitano un mantra: siamo il tempo del benessere, siamo il tempo della libertà. Siamo noi la gente del Progresso, siamo la più ampia forma di civiltà. Altro che redenzione, altro che élite contro i popoli. Il nostro tempo gioca sulle antitesi, sulle perversioni dicotomiche, sulle anticipazioni sbagliate, sui lanci di agenzia intellettuali. Sugli slogan, sullo show, sull’improvvisazione all’esame di storia. È il tempo della contraddizione, della vana sapienza da bar, ancor più che quello delle ostilità, presuntuosamente pretenzioso. Pretendiamo, pretendiamo medaglie per nasconderci dietro l’insicurezza dei nostri costrutti mentali. Mi chiedo sempre perchè si parli di Progresso e poi bisogna rompere un silenzio, ancora oggi, nel 2017, quando internet ha portato a chiunque il dramma delle Foibe; perché si parli di modernità e di una società al massimo grado di Civiltà che si sbraccia, si ammazza, mette da parte i suoi poveri per accogliere altre culture che migrano ma che ancora schifa, ripudia, dimentica la sua.