Io non vedo i giovani in piazza, io non li vedo. Io non sento il megafono gracchiare, il vociare del blocco. Non sento le urla. No. E allora? E allora, forse, non abbiamo toccato il fondo.

Breve storia triste. Ho un curriculum di serie A. L’ho inviato centinaia di volte in due mesi. Neanche mi hanno risposto. Fine.

Poletti non riscuote le mie più fresche simpatie. Personalmente lo stimo come potrei stimare uno che ti appiccica un chewing gum nei capelli. Eppure su quel che ha detto, c’è da “riflettere”. Non è un dissenso coatto con la morale comune, ma neanche una coatta ricerca della metafora più gagliarda.
Mandare un curriculum e sperare nella svolta, nel Paese dei figli di babbo, non serve. Oggi che è saltato ogni schema, oggi che senza una raccomandazione neanche il giratorediminestroni ti fanno fare, senza quel vecchio zio paraculo che conosceva tutti e gli bastava una telefonata, mentre cantano le cicale, con la camicia aperta, al pranzo d’estate con i parenti. Vai a parlare con zio Alfrantonio, che un posto alle Poste ce lo trova sempre. Italiani si nasce, non si diventa. Inutile snocciolare numeri, che conosciamo benissimo, sulle valorizzazioni di ricercatori universitari, di professionisti che in Italia prendevano meno di un pover’uomo sfruttato dal caporalato in Puglia, per fare, senza sosta, l’apritore di bottiglie d’acqua minerale, il che faceva dire che trovi più laureati alla cassa del Decathlon che nelle università. Inutile parlare di percentuali e statistiche, di scandali legati alla politica raccomandante e raccomandata. Sappiamo tutto benissimo.

Ma non è solo questione di calcetti sui glutei.

Mandare un curriculum ed essere certi della svolta, per quante belle cose si possano aver fatto nella vita, nel Paese che non ha interesse nella stabilizzazione di migliaia di lavoratori, tra Garanzia Giovani e il museo delle mummie Fornero, tra figli e figliastri, non serve. Però è anche vero che mandare un curriculum e sperare nella svolta, come fare un compitino per casa, perchè va fatto, perchè non si ha voglia di combattere, serve ancora meno.

Un urlo su un social, non vale quanto uno fatto in piazza, che fa tremare il vetro che separa la disperazione dalla speculazione.
Ci sono tanti della mia generazione che credono ancora di vivere nell’Italia contadina, del boom economico, dove esisteva uno Stato Sociale, c’era Carosello e il vino di casa non sapeva mai d’aceto; in buona sostanza vivono una volontà repressa ed inconscia che è prolungamento dei genitori, i quali anziché aver fornito loro gli strumenti per prendersi il loro tempo, li hanno fotocopiati, per pigrizia, o li hanno sostituiti, per colpa di una mentalità provinciale corta come la miccia di una bomba che sta per esplodere. Il nostro tempo non è di questi ragazzi, perchè ne sono nipoti, ma non figli. Questo tempo richiede doti guerriere. Seleziona brutalmente la specie. Richiede il talento, finanche il genio. È l’invenzione dei peggio mortaccidepippo, direbbero a roma, una sfida continua, è acidità di stomaco per giorni, nessuna certezza, nessun diritto e una strada dritta, dritta verso la disumanizzazione del nostro Io più recondito e sicuro. Bisogna avere doti particolari, per essere giovani “normali”, oggigiorno. È forse così, non mollando un attimo, non riposando MAI, dormendo male e amando forte chi ci sostiene nella scalata, che si può sperare di ottenere un’esistenza appena dignitosa, che ti permette un affitto e in una sera di romantica follia, forse un figlio.

Appunto, una vita appena decente. Perciò, quei figli che hanno una mentalità più rigida dei loro nonni, oggi che tutto è pericolosamente fluido, sismico e instabile, sono quelli che affonderanno, sono quelli che poi s’accontentano e accontentandosi giustificano lo schiavismo, vanificano i sogni di gloria e i diritti basilari di un’intera generazione. Sono i laureati per forza, quelle delle pizzette alla festa, quelli del rapporto per sempre, quelli che pretendono un contratto di lavoro ab aeterno dopo aver svolto i compitini a casa, senza aver sperato, ardito, gioito; rischiato, sofferto, sofferto e rischiato ancora. Non serve sfiorare delicatamente. Non basta il viaggio all’estero, non bastano cinque Master se la testa non si apre e l’elasticità non plasma il talento (e viceversa). Talento che è un dono, ma anche una capacità da sviluppare. Ebbene questi ragazzi sono quelli che SOLO con la spedizione di un curriculum pretendono, sì, pretendono, di avere un lavoro che cresca loro e i loro figli, che li faccia stare bene per tutta la vita, oggi che se non ti alzi alle 8 e ti inventi l’impossibile, o sperimenti un’idea di dignità che passi per la professionalità, lavorando fino alle 11, feste comprese, con partita iva, senza soste, magari per 550 euro al mese, ingoiando l’impensabile, non riesci neanche a camminare da casa tua alla fermata del pullman che ti porta a sentirti uno schiavo a cui hanno promesso la libertà.

Oggi che le aziende te lo fanno capire benissimo: cerchiamo garanzie, non esecutori, giovanotti con i coglioni rigonfi che ci diano il massimo per sovrastare la concorrenza, in un mondo sempre più maledettamente libero. Sempre più, sempre più, fino a che faremo la fine dei popolani del Verga: morti ammazzati, schiacciati dalla stessa Libertà di cui volevano impadronirsi ad ogni costo, anche a quello di tagliare le teste e far scorrere fiumi di sangue.
In questa melanconica ed anacronistica visione s’annida una delle disgrazie di questa generazione, che muore prima di aver compiuto vent’anni, nell’abitudine di un Paese che rimarrà per sempre provincia dell’impero.

Che poi, da questa classe dirigente, non bisogna accettare lezioni di stile, specie quando si sta facendo realmente la fame e non c’è nessuna gloriosa e liberatrice guerra all’orizzonte, è un’altra cosa. La stessa che relativizzato ogni significato, che ha demistificato il lavoro, che ti tassa anche il colore dei capelli, che ti imbriglia in una partita iva a vita, che ti soffoca nel Jobs Act, che ti rende mero strumento di produzione. La stessa della tesi copia-incolla della Madia o del grado di istruzione pari a quello di un pentolino per scaldare il latte del ministro Fedeli.

Non è tanto inondare server sconosciuti e lontani di curriculum, quanto tornare a popolare le piazze. Poco alla volta…

Perciò, se i curriculum non servono, di giocare a calcetto non avete voglia, e forse non si hanno neanche i soldi, allora c’è la piazza. Rimane la piazza: se sono io a dire che non bisogna accontentarsi dei pezzi d’osso con un po’ di carne gettatici sotto al tavolo, non succede nulla; se saremo in tanti, e in tante piazze, allora, forse, si può sperare in qualcosa. Si badi bene: piazze reali, non virtuali

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