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Come  previsto Abdel Fattah al Sisi è il nuovo presidente della Repubblica d’Egitto. Sul Nilo una volta di più la caserma ha vinto sulla moschea. L’erede di Nasser e Sadat (su Mubarak per il momento meglio sorvolare…) è stato confermato per un secondo mandato con il 90 % delle preferenze, più o meno 20 milioni di voti. Un gioco facile poichè l’unico sfidante rimasto, Moussa Moustafa Moussa, non ha raggiunto nemmeno il tre per cento. È una buona o cattiva notizia?  Piaccia o meno, la vittoria di al- Sisi è un’ottima notizia per tutti. Per l’Egitto, per il Mediterraneo, per l’Europa. Per gli equilibri mondiali.

Ricordiamo cosa successe nel febbraio 2011, quando Mubarak, inviso all’amministrazione Obama e abbandonato dai militari, insofferenti dall’avidità del clan presidenziale,  venne costretto a dimettersi. Al tracollo del regime seguì  l’insediamento del “fratello musulmano” Mohammed Mursi. Iniziò una deriva fondamentalista pericolosa che sconvolse l’economia egiziana portando la Nazione  — più di 80 milioni di abitanti… —  sull’orlo della guerra civile. Fortunatamente, come nel 1952 e nel 1980, l’esercito intervenne defenestrando nell’estate del 2013 il cupo Morsi. Toccò al generale al Sisi raccogliere la velenosa eredità della “primavera araba”: disoccupazione e inflazione alle stelle, crollo del turismo, trame dei fondamentalisti, terrorismo nel Sinai, caos in Libia. Un quadro terribilmente complesso anche per il ferrigno militare.

Per di più, a causa della crisi globale, persino il Canale di Suez, la principale risorsa egiziana — era in sofferenza: da tempo il forte calo del prezzo del petrolio aveva reso per gli armatori interessante il periplo dell’Africa o il più conveniente Canale di Panama determinando una diminuzione netta dei transiti (dai 21.400 del 2008 ai poco più di 16.000 del 2014). Da qui la decisione di promuovere una sottoscrizione popolare per finanziare la ristrutturazione e l’allargamento della via d’acqua; memore del passato coloniale, al-Sisi affidò a quattro banche nazionali la vendita pubblica di titoli cartolarizzati a cinque anni, con un tasso d’interesse del 12 per cento, riservati soltanto a cittadini egiziani. In solo otto giorni gli istituti raccolsero ben 6,5 miliardi.

Dal 2015 il nuovo Canale è realtà e porta all’Egitto i fondi indispensabili  per il suo rilancio economico; soldi necessari per rinsaldare i precari equilibri sociali  e proseguire la lotta contro il terrorismo interno ed esterno (vedi Libia).  Sul piano internazionale il presidente ha convinto  chi conta: l’Egitto sembra nuovamente sicuro ed affidabile. Da qui i nuovi investimenti stranieri sulla Suez Economic Zone, il grande hub logistico e industriale della regione del Canale. Ad oggi nella SEZ operano imprese tedesche, francesi, emiratine (Dubai Ports per la logistica) e soprattutto cinesi. Con 267 milioni di dollari negli ultimi cinque anni e la firma nel 2016 di un accordo di cooperazione di 15 bilioni di dollari, Pechino è infatti il principale investitore nella terra dei faraoni; ad Aim Sokma è stata creata la China Egypt Suez Economic and Trade Cooperation Zone, un’enclave gialla di 7,23 kmq in cui operano già 68 società tra cui la Jushi, il colosso mondiale della vetroresina. Anche alle porte dell’ ex mare nostrum si parla cinese.

È l’Italia? Nonostante l’Egitto sia con cinque miliardi d’interscambio il più importante mercato in Africa e il Canale sia vitale per la sua dimensione marittima (la blue economy), Roma mantiene un profilo basso. Purtroppo, terminata la stagione di Mattei e Fanfani, l’Italia non ha più saputo o voluto costruire una politica mediterranea e africana legata ai nostri interessi nazionali.  Non meraviglia quindi che in Egitto la presenza italiana sia affidata alle aziende. Tra tutte, l’Eni. Con 230mila barili estratti al giorno su una superficie di 28.0312 kmq e con 14 miliardi di investimenti (a cui dal 2018 andrà sommato il gas estratto da Zohr, il giacimento più esteso del Mediterraneo scoperto dai tecnici italiani nell’agosto 2015 nelle acque antistanti Port Said), il “cane a sei zampe” è il primo produttore del Paese. Forte del patrimonio politico-diplomatico costruito in oltre 60 anni, dopo il ritiro dell’ambasciatore Massari dal Cairo Eni ha saputo gestire la complicata crisi diplomatica seguita all’omicidio nel 2016 di Giulio Regeni. Una vicenda tragica quanto opaca le cui verità debbono essere ricercate al Cairo ma, soprattutto, a Cambridge. I britannici non hanno mai smesso d’intrugliare sul Nilo.

Non casualmente al-Sisi — nulla è mai casuale in queste circostanze — ha visitato le installazioni di Zohr proprio nei giorni del secondo anniversario della morte di Giulio. Salutando l’amministratore delegato dell’Eni Claudio De Scalzi, il generale-presidente ha assicurato: «Non smetteremo di cercare i criminali. Alla famiglia Regeni presento ancora una volta le condoglianze, ma quel crimine è stato commesso per rovinare i rapporti tra l’Italia e l’Egitto. Affinchè non arrivassimo qui». Chi vuole intendere, intenda.

Sul terreno vi sono poi Edison, Ansaldo, Italcementi, Italgen, Cementir, Telecom, Alpitur e, last but not least, il gruppo di Ernesto Preatoni, il “signor Sharm”. Ad occuparsi della Suez Economic Zone per il momento c’è solo Banca Intesa San Paolo tramite la Bank of Alexandria acquisita nel 2006 per 1,6 miliardi di dollari; dopo aver rischiato la nazionalizzazione nel periodo dei “fratelli” di Morsi, l’Istituto, in collaborazione con Srm-Studi e Ricerche per il Mezzogiorno, è impegnato in una serie di progetti dedicati agli imprenditori desiderosi ad investire nella regione. Visti gli interessi in gioco — più il 10 per cento del traffico mondiale transita attraverso Suez fissando il Mediterraneo (e i porti italiani) al centro degli scenari globali — un’occasione importante per una Nazione che sposta via mare il 54 per cento del suo commercio estero (l’85 con i paesi extra-Ue). È tempo che qualcuno a Roma si dia da fare.

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