L’Africa italiana in giallo. Il nuovo libro di Giorgio Ballario
C’era una volta l’Africa Orientale Italiana, l’AOI. Il piccolo impero dell’ultima delle grandi potenze d’Europa. Una costruzione effimera, fragile ma non indegna. Anzi. A differenza dei blocchi britannici e francesi e dei loro prolungamenti olandesi, belgi e portoghesi (i tedeschi furono eliminati nel 1918), l’esperienza italiana — dal 1869 sino al 1942 e, poi, nel decennio d’amministrazione fiduciaria della Somalia (1950-60) — ebbe una sua originalità e un successo limitato ma significativo.
Ovviamente, vi furono luci e ombre, successi e fallimenti, efferatezze e progresso: un mescolone arci-italiano di sentimenti, progetti, velleità, opere. Al netto, l’AOI rimane uno dei pochi capitoli seri e passionanti della nostra travagliata storia unitaria. Lo conferma, con buona pace dei Labanca e Del Bocca, il credito di fiducia che tutt’oggi, incredibilmente, gli italiani continuano a riscuotere in quelle terre.
Non è quindi casuale che, dopo un lungo oblio, quella lontana avventura inizi a riaffiorare nella memoria di questo Paese smemorato. Nei modi più imprevisti. Da qualche anno — lieve, lieve — nelle librerie è tornato a spirare un vento sottile, un vento africano. Caldo e coinvolgente. Giallistico.
Ecco allora Lucarelli e il trio Consentino, Dodaro, Panella con i loro romanzi polizieschi ambientati nell’Africa italiana. Palme e ascari, donne fatali e intrighi. Segreti. Morti accoppati. Un filone letterario da seguire.
Ma le imitazioni, sebbene efficaci, sono sempre meno interessanti dell’originale e in questo caso l’originale, autentico capofila del “giallo coloniale” italiano, si chiama Morosini, il personaggio creato nel 2008 da Giorgio Ballario in “Morire è un attimo”, un “noir” tutto eritreo ambientato alla vigilia della guerra d’Etiopia del 1935. Il protagonista è un ufficiale dei Carabinieri “insabbiato” sul Mar Rosso e perdutamente innamorato dell’Africa. A lui, lettore di Seneca, il compito agrodolce di risolvere i casi più complicati della colonia “primigenia”. Poi “Una donna di troppo” e “Le rose di Axum”, le altre inchieste del gallonato investigatore tra la Somalia e l’Etiopia. Due successi e lungo silenzio durato (per cause editoriali) sei anni. Infine, Morosini è tornato con le “Nebbie di Massaua” (Edizioni del Capricorno, Torino 2018, ppgg. 250, euro 16.00), un bel regalo di Ballario ai suoi lettori.
Il libro è un ottimo lavoro. Per più motivi. L’autore ha costruito un percorso sottile quanto intrigante evitando forzature e dosando con accuratezza le svolte, i colpi di scena. Il sangue c’è, ma solo quello necessario ad intrigare il lettore. Giusto. Come raccomandava Somerset Maugham in “Grandezza e declino del genere poliziesco” gli omicidi vanno centellinati: «uno è il numero perfetto, due si possono ammettere, quantomeno se il secondo è diretta conseguenza del primo, ma è un errore imperdonabile introdurre un secondo omicidio solo per ravvivare un’indagine che si teme possa diventare noiosa».
Lo scenario è l’afosa Massaua, porto dell’impero e crocevia di traffici più o meno legali. Nel luglio del 1936 uno strano suicidio inquieta il maggiore Morosini: un eccentrico ingegnere s’impicca (o viene impiccato?) nella sua isolata villa. Da subito le cose non quadrano. Il defunto aveva un’altra identità, parecchi soldi in banca e, riflesso nei suoi strambi dipinti, un passato oscuro. Necessario quindi approfondire, capire, indagare ma il carabiniere è inchiodato a letto dalla malaria. Per fortuna Morosini può contare sul maresciallo Barbagallo e lo scium-basci Tesfaghì, due fedelissimi. Grazie a loro, dalla stanza d’ospedale l’acciaccato detective inizia a far luce su una trama sempre più complessa che si dipana tra Aden e Harar, la città tanto amata da Arthur Rimbaud.
Nella sua ossessiva ricerca di verità Morosini incrocia personaggi di fantasia e figure reali come Mario Gramsci, il fratello fascista di Antonio, e lo scrittore (ma anche spia e contrabbandiere) francese Henry De Monfreid. Incontri non casuali. Comme d’habitude, Ballario — sempre attentissimo ai particolari (nomi, marche, canzoni, indirizzi etc.) — ha voluto impreziosire l’indagine tratteggiando atmosfere e sentimenti del tempo. Allora ecco i due fratelli Gramsci, paradigma di un’Italia spezzata tra opposte fedeltà, o il gallico “gentiluomo di fortuna”, omaggio alla letteratura d’avventura. Sullo sfondo, come il coro della tragedia greca, suore dell’ospedale, commilitoni, mezzane, cercatori d’oro, sicari, colpevoli e innocenti. E, soprattutto, gli africani con la loro dignità e la terribile povertà.
Nulla nel libro è come sembra o come dovrebbe essere. Solo alla fine le nebbie si diraderanno e, tessera dopo tessera, il complicato mosaico si ricomporrà sulle fredde ambe abissine. Lontano dal torpore di Massaua. Una sorpresa di Morosini che volentieri lasciamo al lettore.