Sabato 5 luglio Recep Tayyip Erdogan ha ufficialmente inaugurato i lavori per il “Kanal Istanbul”, un’idrovia lunga 45 chilometri, larga 150 metri e profonda 25, che collegherà il Mar Nero con il Mar di Marmara. Imponente come e più di Suez e Panama, l’opera bypasserà lo Stretto del Bosforo, decongestionando l’ingorgato passaggio marittimo (una media di 48mila transiti all’anno) e trasformerà la parte europea della metropoli turca in una vera e propria città-isola.

L’apertura dei cantieri, per quanto simbolica, corona l’antico sogno di Solimano il Magnifico: un’idea visionaria quanto ambiziosa che, a cinque secoli dalla dipartita del sultano, il ferrigno presidente ha ripreso e caparbiamente rilanciato. Il primo annuncio dell’apertura del “quarto stretto” turco risale infatti al 2011 — “ecco il mio folle progetto” proclamò agli attoniti ministri —; più volte rimandato, modificato, discusso, il piano è stato infine approvato dal Parlamento lo scorso marzo. Lo scavo verrà completato, almeno secondo le ottimistiche fonti del governo, in solo sei anni e avrà un costo complessivo di circa 15 miliardi di dollari.

Apparentemente nulla di nuovo, almeno per i vertici dell’AKP, il partito al potere dal 2002. Da allora il suo immarcescibile leader Erdogan — prima come premier e, dal 2014, da presidente della repubblica — ha promosso grandi progetti infrastrutturali volti a modernizzare il volto del Paese, promuovere la crescita economica e, dato non secondario, rafforzare il suo consenso interno. Un meccanismo che, però, si è inceppato da quando l’economia turca è in forte affanno e la sanguinosa svalutazione della lira turca (una perdita di oltre il 400% sul dollaro in un decennio) continua a penalizzare un quadro economico aggravato dai costi dalla pandemia, dal rallentamento delle attività produttive e l’evaporare del turismo. Insomma, casse semi vuote, tanti debiti e una domanda cruciale: chi pagherà i costi di “Kanal Istanbul”? Di certo non le sei principali banche d’affari turche che, come conferma Reuters, si sono dimostrate molto riluttanti a finanziare un progetto oneroso e, al tempo stesso, estremamente divisivo.

Intanto, in attesa di ipotetici finanziatori stranieri — il ministro dei Trasporti Adil Karaismailoglu ha accennato ad investitori cinesi, qatarioti o forse olandesi —, la protesta cresce impetuosa. In prima linea c’è il sindaco della città, Ekrem Imamoglu, esponente del Partito repubblicano del popolo, la principale forza di opposizione, nemico giurato di Erdogan e probabile suo avversario nelle elezioni presidenziali del 2023. Forte del sostegno di scienziati e ambientalisti e dei timori di centinaia di migliaia di residenti, Karaismailoglu denuncia senza requie i rischi sismici (il tracciato s’innerva sulla temibile faglia sismica anatolica), imminenti disastri ecologici (per Greenpeace si tratta di “una catastrofe con conseguenze imprevedibili” e gli oceanografi paventano la morte del già languente Mar di Marmara) e, soprattutto, la certezza che l’impresa rappresenti una gigantesca speculazione immobiliare. Un sospetto ampiamente confermato, a fronte dei miseri risarcimenti per gli espropri in atto dal 2013, dal prodigioso rialzo dei prezzi delle abitazioni (da 25 dollari al metro quadro a 800).

A complicare ancor più la già complessa questione vi è poi l’aspetto geopolitico, un fattore centrale. Dal 1936 i passaggi del Bosforo sono regolati dalla Convenzione di Montreux, il capolavoro diplomatico di Kemal Ataturk, che garantisce il traffico di mercantili d’ogni bandiera e limita l’accesso nel Mar Nero di navi militari dei paesi terzi. Sino ad oggi la Turchia ha svolto con equilibrio il proprio ruolo di garante, ma l’apertura dell’idrovia (con annessa tassa di transito) può essere l’occasione tanto attesa da Erdogan di archiviare i vecchi accordi e aprire una nuova fase, tutta da comprendere e analizzare.

Come nota Lorenzo Vita nel suo ottimo libro “L’onda turca” (Historica-Giubilei Regnani, 2021) dedicato all’espansione navale di Ankara: «Alla Russia, l’idea che la Turchia esca da Montreux non piace per nulla. Putin ha chiamato Erdogan per esprimergli il punto di vista russo sugli Stretti. Il presidente turco ha risposto che per adesso l’uscita non è in discussione, ma l’attenzione del Cremlino è la spia di cosa può succedere. Perché se Mosca ha tutto l’interesse a evitare che si infranga l’equilibrio del Mar Nero, a Washington c’è molta curiosità: specialmente in una fase di escalation che riguarda l’Ucraina e la Crimea». Gli Stati Uniti infatti sarebbero «molto interessati a un canale escluso da quella Convenzione. Se la Turchia decidesse di rinegoziare il trattato o escludere l’idrovia dall’accordo, per Washington si concretizzerebbe la possibilità di liberare un choke point fondamentale dando libero sfogo alla libertà di navigazione e all’idea di armare il Mar Nero». Preoccupazioni condivise anche da molti ammiragli in pensione tra cui Cem Gurdeniz, il teorico di “Mavi Vatan” (la Patria blu), pilastro dottrinale della rinnovata marina turca. Ad aprile, 104 ufficiali hanno firmato una dichiarazione che criticava l’idea del “Kanal” e considerava l’uscita da Montreux un suicidio politico. Per tutta risposta Erdogan ha accusato i navarchi di pianificare un golpe e li ha sbattuti in carcere o ristretti ai domiciliari. Per Vita un segnale forte: «Al blocco nazionalista e laico che contesta “Kanal Istanbul”, e a Russia e Usa. Si fa vedere che la possibilità di escludere il canale dalla Convenzione è un’ipotesi reale. Tanto reale che si considera pericoloso chi ne condanna l’ipotesi, pure se questo significa arrestare un uomo che ha plasmato l’attuale strategia navale turca».

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