«Non perdete mai di vista Cipro, perché per noi quell’isola è importante». Con queste parole negli anni Trenta del ‘900 Mustafa Kemal Ataturk indicava ai suoi soldati la direttrice di marcia della nuova Turchia laica e repubblicana. Per il Gazì il destino della Nazione era nel mare, anzi nei mari che oggi la circondano — Mediterraneo e Mar Nero — e in quelli che lambivano — Caspio, Mar Rosso, Golfo Persico, Oceano Indiano — il defunto impero ottomano. Apparentemente un paradosso per il leader che aveva spostato la capitale dal Bosforo all’arido centro dell’Anatolia preferendo alla cosmopolita (e balneare) Istanbul post sultaniale la provinciale (e collinosa) Ankara. Eppure, Kemal non sbagliava: ieri come oggi la difesa e l’affermazione degli interessi permanenti nazionali s’incentra sul passaggio dei Dardanelli, sull’Egeo per poi irradiarsi dalle acque di Cipro alle spiagge di Tripoli, dal lungomare di Baku al porto di Mogadiscio sino ai grattacieli qatarioti.

Altro apparente paradosso. La visione marittima kemalista — per 80 e più anni solo un’aspirazione schiacciata da una concomitanza di fattori storici snocciolatisi dal trattato di Losanna alla fine della guerra fredda — ha preso forma e sostanza con l’ascesa al potere di Recep Tayyip Erdogan, il campione dell’anti kemalismo ed espressione dell’Anatolia profonda e terragna. Ma nel Deep State turco, almeno per occhi eurocentrici, nulla è semplice, lineare, facilmente interpretabile.

Lo spiega bene Lorenzo Vita, fine analista e intelligenza vivace quanto poliedrica, nel suo bel libro “L’onda turca” (Historica-Giubilei Regnani): «L’esigenza di ergersi a potenza leader del Medio Oriente o comunque di ritornare a pensare in grande la propria esistenza rimane un punto fondamentale dell’agenda di chiunque incarni la leadership del Paese. E questo prescinde da qualsiasi dottrina strategica o geopolitica che in un determinato momento prende il sopravvento nelle stanze dei palazzi di Ankara».

Nel segno del pragmatismo e del realismo più spietato il concetto di “Mavi Vatan”, ovvero Patria Blu, è passato da dottrina sotterranea di una pattuglia d’ammiragli (sempre poco amati dal potere, come confermano i nuovi arresti dell’aprile 2021) a un «vero e proprio pilastro dell’agenda di Erdogan». Al netto delle forti turbolenze interne, la nuova proiezione navalista della Turchia vaticinata dall’ammiraglio Cem Gurdeniz —personaggio sorprendente quanto centrale dell’intera vicenda — è sinergica alle eccezionali ambizioni (e ai grandi timori) di un Paese complesso e complessato: la Turchia è potente militarmente quanto fragile economicamente, demograficamente in crescita ma affamata d’energia, neo imperiale fuori ma lacerata interiormente dal problema curdo.

Il navalismo del terzo millennio è una risposta d’orgoglio e fierezza che rassicura e coagula un’opinione pubblica che non ha dimenticato lo schiaffo inglese del 1914, quando l’Ammiragliato su ordine di Winston Churchill sequestrò sugli scali britannici le due moderne corazzate “dreadnought” — l’Osman I e la Reshadieh — commissionate dalla Turchia all’Inghilterra e finanziate da un’imponente sottoscrizione popolare.  Fu una provocazione prodromica alla terribile guerra che annientò l’impero sultaniale e mise a rischio gravissimo la stessa esistenza della Turchia.  Al tempo stesso le tante declinazioni di “Mavi Vatan” tornano utili allo spregiudicato Erdogan e a quasi tutta la classe dirigente turca. Come ricorda su “Limes” Lucio Caracciolo: «Per lui non importa l’orientamento, la Turchia deve stare al centro del gioco, servendosi delle risorse altrui senza preconcetti: americani, cinesi, russi, arabi, ebrei, persiani o europei poco importa. Conta l’utilità alla patria — e a se stesso, stante la dimensione imprenditoriale della larga famiglia sultan-presidenziale».

L’obiettivo è il 2023 anno di elezioni residenziali ma anche, e soprattutto, anniversario centenario del trattato di Losanna, il de profundis del complesso ottomano.  Per chiudere definitivamente la ferita inflitta dall’Intesa un secolo fa alla nazione turca (e, intanto, farsi rieleggere) Erdogan gioca su ogni tavolo e in ogni scacchiere. Da qui la necessità, come ben descritto da Vita, di una forza navale credibile e, dato importante, finalmente largamente di produzione nazionale. Ecco allora gli investimenti in programmi cantieristici, tecnologie, ricerca, armamenti e, dulcis in fundo, il varo di una/ due portaerei. Il vero salto di qualità per la “Türk Deniz Kuvvetleri”. Peccato che, come avverte l’autore, gli aerei necessari (gli F-35) sono americani e Washington, indispettita dall’attivismo erdoganiano, ha bloccato ad oggi le forniture.

Un avvertimento pesante — a cui si aggiungono il rafforzamento del dispositivo USA in Grecia e le manovre di Wall Street sulla fragile lira turca — che ha obbligato Ankara a mettere momentaneamente la sordina (o le manette…) ai cantori dell’euroasiatismo e del panturanesimo. “L’onda turca” ci ricorda però che, una volta di più, nulla è definitivo e definito: «La punizione nei confronti della Turchia svela, infatti, anche il reale timore che questo avvicinamento con Mosca (e Pechino) possa essere il preludio alla perdita di una provincia fondamentale del grande impero americano. E Washington, in questo momento, non può permetterselo». Ancora una volta tutto si trasforma in una contrattazione da gran bazar istanbuliota, arte in cui Erdogan eccelle.

E l’Italia cosa fa? Per il Patrio Stivale la Turchia è da sempre un interlocutore magari scomodo ma assolutamente centrale come dimostrano i plurisecolari rapporti tra Venezia e Costantinopoli.  Tra Famagosta e Lepanto, le guerre di Candia e Morea, il dogato e La Porta rimasero sempre economicamente legati sino a diventare, riprendendo Braudel, due «nemici complementari», una coppia infelice ma indissolubile. Un rapporto elusivo, discontinuo ma sempre profittevole ereditato (almeno parzialmente) dall’Italia unitaria e poi evaporato negli ultimi decenni.

Come è evidente e risaputo l’attuale politica estera italiana soffre di minimalismo e stenta a leggere e interpretare i processi geopolitici in atto. Non sorprende quindi l’assenza di Roma nel grande gioco mediterraneo e la sua estromissione dallo scenario libico — il nostro cortile di casa — a favore proprio della Turchia. Tanto meno deve meravigliare l’ignavia dei nostri governi nel caso della Saipem 12000, bloccata dalle navi di Erdogan nelle acque di Cipro o la timidezza riguardo alla strategica partita — altro tassello della “Mavi Vatan — delle “autostrade del mare” e dei porti.

Pagine che Lorenzo Vita analizza con attenzione delineando scenari preoccupanti: «Basta osservare la carta geografica per comprendere che tutta l’Africa settentrionale, il Medio Oriente e il Mediterraneo sono un grande palcoscenico in cui si intrecciano una storia comune di dominazione e di interscambi e anche di guerre tra i due Paesi, e una presenza più o meno radicata di interessi di natura politica, economica, militare e legati alla stessa sicurezza nazionale».

Parole che dovrebbero far riflettere il molto modesto ceto politico nostrano, ad oggi incapace di immaginare una visione mediterranea e pervicacemente ancorato a schemi subalterni, riferimenti minimalisti, velleità obsolete. Una somma di pensieri corti del tutto inutili per affrontare le tempeste (anche marine) di Caoslandia.

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